sabato 19 agosto 2017

Scrivere salverà il mondo?

L'arte di scriver storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci s'accorge che quel che si sapeva è proprio un nulla.
Italo Calvino, Il cavaliere inesistente



Scrivere salverà il mondo??
Non lo so, però potrebbe farci stare meglio.

Innanzitutto la domanda è: perché dovrei scrivere?? Serve molto tempo che nel caos della vita quotidiana è difficilissimo trovare; è faticoso; ci pone sotto il giudizio di altri e non c' guadagno economico se non per scrittori professionisti.

Allora perché la gente scrive o dovrebbe farlo?
1. Ci aiutare a buttare fuori le nostre emozioni. Pensando a grandi del passato come i vari Kafka, Pascoli, Petrarca si tratta soprattutto di tirar fuori emozioni negative (dolore, rabbia, frustrazione).
2. Aiuta a riordinare le idee. In questo senso riflettere o raccontare la propria vita o episodi di essa ci permette di instaurare un dialogo interno a noi stessi che produce una portentosa analisi e rielaborazione dei fatti, oltre a fermare i pensieri (che nella nostra mente vagano sparsi e in modo confuso)!
3. L'azione dello scrivere è fisicamente più onerosa, in termini di tempo, di quella del pensare: riversare parole su un foglio rallenta temporaneamente il flusso di pensieri, favorendo un sano distacco dalle forti emozioni e fornendo al tempo stesso un effetto liberatorio.

Da quasi vent'anni un crescente numero di studi di carattere prevalentemente psicologico (ma non solo), ha dimostrato come scrivere, soprattutto riguardo ad eventi negativi, può far bene.

James W. Pennebaker, psicologo esperto in “benefici della scrittura”, in una lunga serie di studi sperimentali chiese alle persone di scrivere emozioni e pensieri riguardo ad eventi particolarmente difficili e traumatici della loro vita, per alcuni minuti e per alcuni giorni, cercando cosi di capire i meccanismi sottesi al potere dello scrivere; definì con il termine di “scrittura espressiva” questo suo paradigma sperimentale. In seguito a questi esperimenti Pennebaker capì che scrivere le proprie emozioni, i pensieri e i sentimenti più profondi riguardo ad un evento traumatico, stressante e fortemente emotivo, poteva incidere positivamente sulla salute fisica e psicologica in quanto questo permetteva una maggiore rielaborazione mentale ed emozionale degli eventi, facilitando così la comprensione ed il significato di certi avvenimenti e del proprio stato d’animo.
Secondo altri studiosi, Sloan & Marx, 2004, il fatto di scrivere dei pensieri ed emozioni più profonde riguardo ai propri traumi o eventi negativi e dolorosi, indurrebbe un miglioramento dell’umore, un atteggiamento più positivo e una migliore salute fisica.
Leggendo senza approfondire troppo sono rimasto particolarmente sorpreso e incredulo dal rapporto tra la scrittura espressiva e i miglioramenti fisiologici che essa porta! Si tratta di parametri fisici, passatemi il termine, molto rilevanti tra cui:
- frequenza cardiaca;
- pressione sanguigna;
- aumento dei linfociti-T del sistema immunitario;
- sistema nervoso autonomo.
Non solo, ma oltre agli aspetti fisiologici sono stati classificati anche quelli benefici di tipo psicologico derivanti dallo scrivere:
- stress e ansia: permettendo un’espressione delle emozioni inibite e nuove modalità di affrontare le situazioni ansiogene e stressanti;
- depressione: favorendo pensieri, sentimenti più positivi e nuove modalità di coping e di problem solving;
- disturbo post traumatico da stress: facilitando una diminuzione dei sintomi del disturbo;
- difficoltà emotive in pazienti con cancro: permettendo un miglioramento dell’umore attraverso l’espressione degli stati d’animo dolorosi;
- disturbi del comportamento alimentare: inducendo un miglioramento nella propria immagine corporea ed una diminuzione dei sintomi del disturbo;
- alessitimia: permettendo un miglioramento dell’inibizione emotiva;
- difficoltà nelle relazioni sociali: favorendo una migliore comunicazione interpersonale.



Nel 2002, Lepore, Greenberg, Bruno e Smyth riscontrarono un particolare meccanismo alla base dello scrivere:
La Regolazione delle emozioni. 
Lo scrivere faciliterebbe l’autoregolazione delle emozioni, permettendo un miglior controllo di queste e trasmettendo all’individuo una maggiore auto efficacia, in quanto questo processo induce la sensazione che i traumi, gli eventi stressanti e i cambiamenti, possano essere maggiormente controllati, riducendo di conseguenza i sentimenti negativi e generando un miglior benessere psico-fisico.

Non bisogna essere scrittori per poter scrivere: l’uso dei social network favorisce in parte l’abitudine di scrivere di noi stessi con altre persone, ma forse basterebbe anche solo scrivere su un bel foglio di carta come una volta per ottenere effetti benefici.

Se scrivere delle proprie emozioni negative può fare bene, scrivere in un blog può risultare ancora più efficace. Capite meglio ora perché una mente contorta come la mia bazzichi da queste parti??
Una ricerca svolta dall'University of Haifa in Israele ha dimostrato i benefici che derivano dalla scrittura. Scrivere in un blog permette di fare il salto dal "confronto con se stessi" al "confronto con il mondo esterno". La maggior parte delle persone infatti, hanno paura di esprimere le proprie debolezze, per paura di essere giudicati e non voluti, mentre sembrerebbe che questa paura non si manifesti o comunque si manifesti di meno dal confronto con gli estranei. Oltretutto scrivere in un blog  può portare ulteriori punti di vista e nuove soluzioni alle quali spesso chi scrive per sé non riesce ad arrivare in quanto vive all'interno del problema stesso!

E torniamo al solito discorso:

no man is an island!



No man is an Island, intire of it selfe; every man is a peece of the Continent, a part of the maine...
John Donne, Devotions Upon Emergent Occasions 

Scrivere questo post mi ha permesso di smaltire il nervosismo dovuto alle (ahimé) solite notizie del tg, e ricordare che le cose importanti per vivere in una società perfetta sono sempre le stesse:
rispetto(di se stessi e degli altri), ascolto e dialogo....ce la faremo mai???
Chissà che ragionarci su scrivendo e prendendosi il tempo per riflettere sulle nostre azioni non aiuti un po' tutti a creare un mondo migliore.

martedì 1 agosto 2017

La quotidiana guerra di un allenatore di volley

E’ stato ar fronte, sì, ma cor penziero,
però te dà le spiegazzioni esatte
de le battaje che nun ha mai fatte,
come ce fusse stato pe davero.

Avresti da vedè come combatte
ne le trincee d’Aragno. Che gueriero!
Tre sere fa, pe prenne er Montenero,
ha rovesciato er cuccomo der latte.

Cor su sistema de combattimento
trova ch’è tutto facile: va a Pola,
entra a Trieste e bombarda Trento.

Spiana li monti, sfonna, spara, ammazza,
Pe me – borbotta – c’è ‘na strada sola”
e intigne li biscotti ne la tazza.

Trilussa, L’eroe ar caffè




Da neofita e sprovveduto nel mondo “dell'allenamento” e “dell'allenare” (o del coaching come si dice ora) mi capita spesso di tenere le orecchie ben aperte per cercare di apprendere tutto quello che si può imparare, come si dice a Roma, aggratise (traducendo: “gratuitamente”) dalle esperienze e dai racconti di chi quel mondo lo ha vissuto e lo vive più di me.

Giocando da un po' di anni in giro per l'Italia ho avuto anche la fortuna di vedere e sentire campane diverse, partecipare a corsi di vario genere e argomento e, ultimo ma non meno importante, vivere sulla mia pelle alcune situazioni.

In questi giorni, tranquillamente seduto a cena a un tavolo di amici allenatori, per l'ennesima volta ho dovuto sentire come in quel luogo in cui ci trovavamo ci fossero i migliori allenatori d'Italia. Non faccio nomi perché lo stesso discorso lo potrei fare per tanti altri luoghi della penisola fornendovi ogni volta una spiegazione plausibile e vera. Tutti quanti siamo sempre nel posto in cui si fa la migliore pallavolo!
Quando, però, parliamo di risultati, sia in termini di vittorie sportive, che di creazione di talenti o di programmazione tutti tornano in trincea: “ma qui i soldi sono pochi”, “ qui c'é il calcio che porta via i talenti”, “non ci sono le palestre”, etc. Solitamente il discorso poi finisce, a meno che il sottoscritto non si innervosisca (purtroppo sto invecchiando e capita sempre più spesso), più o meno così: “guarda la storia, qui ci sono da sempre giocatori e squadre importanti”, etc..

Riassumendo: è tutto bello, ma quando fai notare che non è proprio così escono fuori le scuse e si adducono prove delle proprie capacità che a volte risalgono fino anche agli anni '70!
Ovviamente, come sempre, sto esagerando e generalizzando un po' il concetto per renderlo più chiaro.

Quello che mi chiedo è: una volta appurato che siamo in una situazione buona, media o pessima, cosa può fare un allenatore per renderla migliore, a prescindere di come la valuta? Come può fare andare avanti la pallavolo senza rivangare i fasti del passato o cercare col lanternino i buoni risultati del presente?

Su questo discorso si potrebbe aprire un mondo, ma quello che io credo è che sia la persona a fare la differenza in un sistema: dopodiché se il sistema è funzionante e funzionale è ovvio che i risultati del singolo saranno maggiormente esaltati e utili alla comunità piuttosto che in un sistema poco oliato e mal funzionante. Resta il fatto che la persona giusta, anche in un posto difficile, può e deve fare la differenza. Non sono sprovveduto: parto dal presupposto che per “posto difficile” si possa intendere (ed è sacrosanto) anche mancanza di spazi, stipendi, ragazzi, palloni...ma non possibilità o opportunità!

Dando per assodate tutte queste premesse mi sono chiesto se potrò mai diventare un allenatore con tutte le carte in regola? Conseguentemente la domanda è: quali sono le caratteristiche che un allenatore deve avere per produrre risultati?

Apro una parentesi: il risultato è l'obiettivo programmatico della società o dell'allenatore e non per forza combacia con la vittoria sul campo!

Mi è rimasto molto impresso un dialogo che ho avuto con un allenatore della Mens Sana Basketball Academy, settore giovanile senese, tra i migliori in Italia, che mi faceva notare come dietro il loro allenare c'è una filosofia ben definita che ha l'obiettivo di creare giocatori (e allenatori!) di primo livello a scapito anche di titoli nazionali che, modificando di poco alcune metodologie di allenamento, potrebbero essere ottenuti con relativa facilità o comunque, potrebbero essere un po' più alla portata. Chiudo qui la parentesi altrimenti mi dilungo troppo.



Ho provato, pertanto, basandomi anche su analisi di esperti e chiacchieroni da bar (non tutto quel che viene detto al bar è sbagliato, anzi!) a identificare alcune caratteristiche che un allenatore secondo me deve avere:

1. Curiosità
Sottotitolo: coraggio, passione e competenza
Non potevo non metterla per prima visto l'inizio del post. Per curiosità intendo la voglia di studiare e aggiornarsi, la ricerca di stimoli e il coraggio di sperimentare: senza curiosità non c'è miglioramento, ma uno stallo continuo che porta all'indolenza e toglie brio in primis all'allenatore e, in rapida successione, a tutti i giocatori. La mancanza di curiosità intesa in questo senso è, secondo me, la malattia comune alla maggior parte degli allenatori a tutti i livelli. Essere curiosi implica fatica e sacrifici che quasi sempre non hanno un corrispettivo tangibile. Chi vive di curiosità si nutre di passione: forse il tempo storico non è quello giusto per una dieta del genere, ma credo che se si sceglie di diventare allenatori bisogna mettere in conto questa situazione. Un allenatore è un innovatore, un ricercatore e una figura dinamica per definizione. Chi allena senza pensare, tanto per passare due ore in palestra, dovrebbe ripensare qualcosa della sua vita!

2. Comunicatività
Questo punto è tanto banale quanto vasto. Il concetto è molto semplice: sul lungo periodo, se vuol essere seguito da una squadra, un buon allenatore deve essere in grado di sentirla e farsi sentire. Questo punto è molto importante e anche causa di molti fraintendimenti: la comunicazione è bidirezionale! Esistono e si stanno sviluppando in questi anni tanti studi e metodologie per migliorare la capacità di far comprendere agli altri quello che si vuole dire. Per allenare non basta: si può essere ottimi oratori, ma pessimi comunicatori. Per comunicare bisogna dire ed ascoltare o, meglio ancora, sentire e sentirsi! Da questo punto di vista mi permetto di fare una considerazione molto personale e datata nel tempo. Ho avuto la fortuna di avere come allenatore in nazionale juniores, qualche secolo fa, Angelo Lorenzetti, attuale allenatore di Trento. Per la mia esperienza lui non era un abile oratore, ma è stato un eccellente comunicatore perché da giocatore percepivo fiducia e sapevo sia quali erano i miei obiettivi sia che, se avessi fatto quello che mi suggeriva lui, li avrei raggiunti.
Altro esempio è Mauro Berruto per la comunicatività sul breve periodo. Di lui si può dir tutto tranne che non sia un bravo e ordinato oratore/scrittore (al di là dell'essere d'accordo su quello che dice che nel nostro caso è irrilevante), ma più che questo aspetto mi piaceva di lui la gestione della comunicazione nel time-out: tre input, mai di più, precisi, espressi in maniera chiara e che di solito davano ad ogni giocatore una sola cosa a cui pensare. Facendo un confronto televisivo con Lorenzetti si può notare questo:
il time out di Berruto dà informazioni chiare anche a chi è seduto sul divano di casa con birra e/o gelato in mano, quello di Lorenzetti è assolutamente incomprensibile. Eppure vi assicuro che l'efficacia è la stessa per i giocatori perché gesti e parole chiave che sottintendono concetti hanno lo stesso peso per chi li riceve di un discorso ben articolato se dietro c'è altro. In entrambi i casi non importa solo come si dice qualcosa, ma come funziona lo scambio bidirezionale giocatori/allenatori: se questo funziona la squadra viaggia insieme compatta e si supera tutto...altrimenti non si va da nessuna parte.
Comunicare è “dare e essere recettivi nel ricevere”



3. Esempio (o leadership?)
Un allenatore è una guida a tutti i livelli e in tutti i sensi, non solo nel gioco e nei suoi sviluppi. A livello giovanile secondo me dev'essere, addirittura, prima un educatore (che non deve sostituirsi alla famiglia, ma affiancarla) e poi un tecnico.
La cosa che ho notato è che se un giocatore non considera un buon esempio nella vita di tutti i giorni il suo allenatore, non gli darà rispetto nemmeno in palestra: il che non significa che non obbedirà ai suoi comandi, ma che semplicemente lo farà in maniera meccanica, senza metterci del suo e bloccando quella comunicazione bidirezionale di cui si parlava al punto 2.
L’allenatore, sia nei settori giovanili che nelle prime squadre, è l’esempio. La sua mentalità, il suo modo di fare e il suo atteggiamento influenzeranno di conseguenza il comportamento dei giocatori. Per questo, in questa caratteristica, non rientra solo il carisma, ma anche l’immagine e l’educazione. Essere una persona limpida, senza ombre, aiuta all’interno di uno spogliatoio e permette al tecnico di essere sempre in una posizione di forza rispetto ai giocatori.

A questo aggiungerei la capacità di affrontare tutte le situazioni con un atteggiamento positivo, dinamico e, tornando al punto 1 del post, di curiosità.

Come allenatore ho la responsabilità per quello che si fa in campo ma anche fuori, per questo cerco di conquistarmi il ruolo di leader, per farmi seguire. Si dice che io incuta timore, ma per imporsi non ci sono spartiti precisi, bisogna cercare di farsi seguire, col buon esempio, attraverso il comportamento personale. 
Zdeněk Zeman




4. Competenze e capacità di riportarle ai propri giocatori
Questo punto si spiega da solo. Bisogna STUDIARE per pensare di poter allenare! E quando dico studiare non mi riferisco solo alla tecnica o alla tattica, ma anche ai modi per rendere le nozioni facilmente assimilabili dai nostri giocatori. Penso che aver giocato possa aiutare, ma solo in piccola parte. La competenza, infatti, va ben oltre l’esperienza. Bisogna entrare nell’ottica di essere innanzi ad un nuovo punto di partenza ed essere delle “spugne” pronte ad assorbire ogni insegnamento, scevri di preconcetti e convinzioni antecedenti. Solo con questa base si può divenire poi un allenatore competente, in grado di imparare anche dopo anni e anni di carriera e adattarsi alla continua evoluzione del mestiere.

5. Autocritica e capacità di gestire i giudizi
Aggiungerei anche la capacità di gestire i pregiudizi!
Fondamentalmente è tutto semplice quando i risultati arrivano e la squadra gira alla grande. Ma la carriera di un allenatore è fatta principalmente da sconfitte più che da vittorie (a parte rare eccezioni). Per questo è fondamentale saper essere autocritici, capire quando l’errore sta a monte e non a valle, cioè alla sconfitta sul campo da gioco. Questa qualità è necessaria per un allenatore che vuole innovare e migliorare, se stesso come la squadra. E ricordiamoci sempre che la vittoria non è solo quella legata al risultato del campo!
Discorso critiche. Personalmente mi danno un fastidio esagerato, però passato il primo momento di permalosità mi sono state sempre molto utili (da giocatore) per due ragioni:
a. sono uno stimolo a far vedere che sono forte (perché nessuno lo dice, ma tutti pensano di esserlo...credo sia una condizione sine qua non è impossibile giocare ad alti livelli o raggiungere obiettivi molto importanti in relazioni alle proprie capacità)
b. che ci piaccia o no molte sono critiche giuste. Oltretutto ascoltare più punti di vista ci consente di avere un quadro più completo della situazione e sviluppare soluzioni più centrate e idonee



6. Capacità di programmazione
Questa abilità la vorrei intendere in senso ampio: non è solo costruire un programma tecnico o tattico, ma viverlo e portarlo avanti quotidianamente adattandolo e supportandolo.
Ogni allenatore, anche involontariamente, parte con delle proprie idee o basi. Può essere un sistema di gioco, un determinato tipo di mentalità, una visione tecnica: ogni allenatore imposterà il proprio lavoro su queste fondamenta. È dunque importantissimo che un buon tecnico sia in grado di programmare il lavoro del suo gruppo, passo dopo passo, sulla base di metodi in cui crede fermamente. Non si possono improvvisare allenamenti o lezioni tattiche. Bisogna essere al tempo stesso pronti ai cambiamenti, ma pazienti nell'attendere i risultati. Cambiare, restare in equilibrio e avere pazienza: elementi in antitesi ma tutti ingredienti follemente fondamentali per ogni allenatore che voglia raggiungere i suoi obiettivi.
Aggiungo una considerazione: avremo a che fare con ragazzi di cui circa la metà verrà scontentata ogni domenica, con dei tifosi che pretendono risultati e con una dirigenza che pretende il raggiungimento di determinati obiettivi. Da allenatori saremo il filo che collega tutte queste posizioni, il funambolo che, in base alla situazione da affrontare, è sempre costretto a scegliere senza snaturare la programmazione: niente arriva subito e perciò l'arte dell’attesa è fondamentale. Saper attendere e, soprattutto, incassare i colpi è, purtroppo o per fortuna, una capacità che se non abbiamo dovremo sviluppare se vogliamo fare questo lavoro!


Credo che senza anche solo una di queste 6 caratteristiche definirmi "allenatore" sia molto ottimistico. Vorrei chiudere lo sproloquio odierno facendo mia e adattando una frase di derivazione calcistica che penso mi apparterrà quando passerò dall'altro lato, se mai accadrà in maniera definitiva e univoca:

[Il calcio] La pallavolo è già difficile per chi ne capisce, figuriamoci per gli allenatori.

[Franco Rossi ft] Myself