venerdì 15 dicembre 2017

La giustizia

Quanno un giudice punta er dito contro un
povero fesso nella mano strigne artre tre dita
che indicano se stesso.
A me arzà un dito pe esse diverso
me fa più fatica che spostà tutto l'Universo.
Alessandro Mannarino, Bar della rabbia


Tornano i conti??

lunedì 11 dicembre 2017

Parole esatte dal volgo

Le parole erano originariamente incantesimi, e la parola ha conservato ancora oggi molto del suo antico potere magico. Con le parole un uomo può rendere felice un altro o spingerlo alla disperazione, con le parole l’insegnante trasmette il suo sapere agli studenti, con le parole l’oratore trascina l’uditorio con sé e ne determina i giudizi e le decisioni. Le parole suscitano affetti e sono il mezzo generale con cui gli uomini si influenzano reciprocamente.
Sigmund Freud

Pensiero veloce.
E' difficile descrivere:
perché è difficile capire le persone
e poi perché è difficile trovare le parole esatte


Fortunatamente esistono parole che da sole hanno il potere di esprimere un intero concetto con chiarezza.
A me succede spesso, nella mia testa, di arrivare alla parola di cui ci spiega bene il significato il seguente video:



fortunatamente la ricerca di sinonimi socialmente accettabili mi sta salvando, ma non so se durerà...d'altronde, a che pro??

E' che ancora non sono così incauto....

Tranquilli...si gioca....ma neanche troppo...

martedì 5 dicembre 2017

In panchina con Seneca: lucidità nei momenti chiave

Sono più le cose che ci spaventano di quelle che ci minacciano effettivamente, Lucilio mio, e spesso soffriamo più per le nostre paure che per la realtà. […] Non so perché le paure infondate turbino di più; quelle fondate hanno un loro limite: tutto ciò che è incerto è in balia delle congetture e dell’arbitrio di un animo terrorizzato. Perciò niente è così dannoso, così irrefrenabile come il panico; le altre forme di timore sono irrazionali, questa è dissennata
Seneca, Epistulae morales ad Lucilium



Uno degli aspetti più deleteri di uno sport con grande componente tattica è la mancanza di lucidità! Partendo dal presupposto che la correzione degli aspetti tattici, secondo me, è secondaria rispetto a quella degli aspetti fisici e tecnici, va detto che la mancanza di lucidità influisce su tutti e tre gli ambiti in maniera parimenti importante.

Le cause principali che portano a momenti di crisi e mancanza di lucidità derivano da

- fatica fisica. Arrivare al punto culminante di un evento sportivo senza l'adeguata preparazione fisica ci può portare ad avere cali di attenzione e appannamento. Trattasi di semplici reazioni biologiche (diminuzione o assenza di sostanze che contribuiscono a tenere attive le cellule celebrali e quelle di tutti gli organi che apportano informazioni ai nostri centri nervosi) associate allo stress del "non riuscire" a compiere un determinato gesto per mancanza di energie

- stress mentale. In questo caso i fattori sono molteplici, ma possiamo raggruppare anch'essi in due tipologie: esterni e interni. Quelli esterni derivano dal giudizio altrui o da distrazioni legate solo marginalmente all'evento sportivo (relative al marketing, per esempio, o l'organizzazione di viaggi e trasferte solo per dirne un paio). Poi ci sono i fattori "interni", quelli veramente distruttivi: reazioni intime legate a tutti i tipi di giudizi e commenti, confronti e paragoni, autoesigenza e pensieri negativi.

Scrive Seneca: "Non so perché le paure infondate turbino di più"...io credo che non definendo concretamente un problema sia impossibile cercare una soluzione reale. Prima di parlare di questi aspetti mentali eliminiamo in maniera rapida e senza pretese troppo scientifiche tutte le altre.

Banalmente, per diminuire e limitare lo stress derivante dalla fatica fisica basterebbe arrivare più preparati alla gare, ergo: allenare il corpo in maniera migliore.
Apro una parentesi: ho scritto volutamente "allenare in maniera migliore" piuttosto che "allenare di più" perchè non è importante la quantità del lavoro che si fa se in esso non c'è qualità!
Oltretutto, in un lavoro di qualità le componenti del riposo e del recupero hanno lo stesso valore della componente di "azione"!

Continuando a ragionare banalmente possiamo classificare lo stress mentale derivante da fattori esterni come irrilevante o, quantomeno, un male necessario: per portare avanti un'attività sportiva più o meno importante servono soldi e bisognerà mettere in conto un numero minimo di spostamenti (a meno che non abbiate una palestra in casa) e interventi legati al reperimento dei fondi. L'unica accortezza che un allenatore dovrebbe osservare e che tutti questi elementi non interferiscano con lo spazio dedicato agli allenamenti e, soprattutto, al tempo libero dell'atleta. Un atleta che si sente soffocato non rende, è distratto e sposta le sue attenzioni verso la ricerca di spazi in cui rilassarsi....tendenzialmente, non potendoli trovare, se li ritaglierà rallentando la spinta nel corso degli allenamenti abbassando la qualità del lavoro fisico, tecnico e tattico.

Finiti i discorsi banali si nota immediatamente come la problematica principale legata alla riuscita della performance sportiva e in cui si può intervenire in maniera più massiccia sia strettamente connessa agli equilibri interiori dell'atleta e alle sue preoccupazioni. Come detto all'inizio, questo aspetto dev'essere integrato con quelli tecnici, fisici e tattici per migliorare la performance, ma non può essere l'unica base di lavoro, seppur sia una molla rilevante per fare il salto di qualità.

Secondo il pastore del Massachusetts James Gordon Gilkey esisterebbero cinque categorie di preoccupazioni, quattro delle quali immaginarie. La quinta, quella delle preoccupazioni con un fondamento, ricoprirebbe solo l’8% del totale, eppure si ragiona e si fanno valutazioni secondo la proporzione contraria.

Io sto proponendo il discorso in salsa sportiva, ma ciò non toglie che questo sia assimilabile a tutti gli aspetti della vita. A tal proposito, lo stesso Seneca, che sicuramente non può esser considerato un mental coach sportivo, nella lettera numero 13 delle sue epistole a Lucillo, individuando "la tendenza dell’essere umano a sopravvalutare i pericoli, a temere senza motivo e a inventarsi paure inesistenti, auto-infliggendosi sofferenze inutili e ansia" scrive:

"Certe cose ci tormentano più del dovuto, certe prima del dovuto, certe assolutamente senza motivo; quindi, o accresciamo la nostra pena o la anticipiamo o addirittura ce la creiamo. […] Ti raccomando solo di non essere infelice anzitempo: le disgrazie che hai temuto imminenti, forse non arriveranno mai, o almeno non sono ancora arrivate"



In parole povere, la maggior parte delle nostre paure e del nostro stress è autoindotto. Nonostante il consiglio di Seneca che esorta Lucillo a non preoccuparsi prima del dovuto, si percepisce che anche all'epoca del filosofo romano (oggi diremmo spagnolo viste le sue origini andaluse) l'uomo avesse una forte tendenza a pensare in negativo. 
In realtà, pensare negativo è un processo naturale di autodifesa: 

1. pensare il peggio, come aspettarsi di fallire, di essere traditi o di essere delusi è come stipulare una polizza di assicurazione per le emozioni. Chi non ha mai detto o pensato: “quando mi aspetto il peggio, non resterò deluso se le cose andranno male davvero”. 
2. E’ più facile predire il peggio che il meglio. Fare una brutta partita non comporta molti sforzi nella sua preparazione: possiamo riuscirci sempre facilmente!
3. Simile al punto precedente, ma con una sfumatura di separazione, è il discorso ALIBI. Pensare negativo ci fornisce l’alibi per non provare a lavorare sodo per qualcosa. 
4. Un’altra forma di pensiero negativo è sperare che le cose buone non accadano a coloro che conosciamo. Ciò evita l’onere di congratularci con gli altri del loro successo. Oltretutto questa è una forma velata di auto paragone. Siamo gelosi quando le cose positive accadono agli altri, ma è più facile sperare che quelle cose non accadano a loro piuttosto che impegnarsi perchè accadano a noi. Aggiungerei anche che "sbattersi" per raggiungere il livello di chi fa le cose meglio di noi è molto tosto e non fa per tutti: meglio sperare nell'altrui fallimento.

Ma come dominare questi aspetti e migliorare la nostra performance o quella del nostro atleta?
Per la mia personale esperienza direi che la soluzione è la conseguenza di un lavoro di squadra altamente comunicativo (dove per comunicazione non si intende solo il semplice "parlare") tra l'atleta, l'allenatore e lo staff sui seguenti aspetti: 

- Autostima: conferisce all’atleta la consapevolezza di avere le doti per raggiungere il successo, donando anche la capacità di rialzarsi a testa alta.
Troppo spesso ho sentito la frase “E’ stata solo fortuna” sia in seguito ad un successo che ad una sconfitta. Smettiamola di ripetere questa sciocchezza e iniziamo a dar credito alle cose buone che facciamo. Una frase che mi piace tantissimo e che mi ripeto spesso, soprattutto quando gli obiettivi sono lontani e non ho voglia di allenarmi, è

La fortuna è ciò che accade quando la preparazione incontra un'opportunità

Ci credete se vi dico che anche questa frase è di Seneca?
La fortuna è relativa. La preparazione no. A maggior ragione la fortuna non può essere la spiegazione di una sconfitta. E così passiamo al prossimo punto:

- Consapevolezza: ciò vuol dire, capire al meglio la causa della difficoltà che si sta attraversando e i suoi effetti sull'atleta
Guardiamo in faccia la realtà: non tutte le cose vanno come vogliamo, anzi! Ma non disperiamo perché è altrettanto vero che:
a. un cambio di programma con vincente è una soluzione efficace e soddisfacente, non un errore di programmazione
b. Le sconfitte sono temporanee: solo perché ci sentiamo giù e depressi non vuol dire che lo saremo per  sempre, non lasciamo che una sconfitta rovini tutta la vostra vita
c. sbagliare non vuol dire essere dei falliti. La sbaglio è semplicemente il sistema migliore che abbiamo per crearci "esperienza": impariamo ad amare l'opportunità di crescita derivante dall'errore, ma al tempo stesso odiamo l'errore (in altre parole: sbagliamo il numero di volte necessario ad imparare, ma mai allo stesso modo)! 

- Autocontrollo: per ragionare con calma su ogni decisione è necessario avere la giusta capacità di dialogare con se stessi. Ci ascoltiamo abbastanza? Siamo onesti con noi stessi? Siamo esigenti ma non troppo severi? Ci vuole tempo per riuscire a trovare il proprio equilibrio interiore: parlare con il nostro allenatore o lo staff e rielaborare le sensazioni da soli è il metodo più veloce per sviluppare questa capacità; essere in situazione di difficoltà è il modo più efficace per allenarla.
Collegandomi al punto precedente sulla consapevolezza: le sconfitte sono temporanee così come lo sono le vittorie. Non si vive di ricordi se si fa sport per lavoro o con un fine di performance ideale. Non sediamoci e non esaltiamoci troppo. Il salto di qualità è conseguenza di un lavoro quotidiano continuo nel tempo, perciò bisogna evitare di fare scelte errate dettate dal solo istinto: programmazione, low profile e tanta calma sono la chiave del successo.

- Forza di volontà: qui si potrebbe aprire un mondo, ma userò la mia forza di volontà per non farlo. Un solo concetto: per sviluppare la forza di volontà occorre imparare a conoscere al meglio noi stessi e porsi gli obiettivi giusti!
Come si fa?? Una tecnica che suggerirei potrebbe essere quella del cosiddetto schema S.M.A.R.T.. L'acronimo è presto spiegato. Ogni obiettivo deve essere:

S: Specifico e in positivo: l’obiettivo non deve mai presentare un carattere generico e deve essere posto nel senso positivo (esempio: “Devo essere veloce”).

M: Misurabile: questa caratteristica renderà i risultati raggiunti più facili da constatare e analizzare. In tutto quello che si vuol fare è importante ottenere prove tangibili e verificabili dei risultati ottenuti.

A: Ambizioso: solo se estremamente ambizioso, l’obiettivo sarà in grado di motivarci a dovere e di renderci capaci di superare realmente i nostri limiti.

R: Realizzabile: un obiettivo deve però essere anche conquistabile, perché, una volta conquistato, potrà accrescere la nostra autostima e le nostre convinzioni.

T: Tempificato: non prefiggerci un qualche intervallo di tempo, entro cui dover completare il nostro obiettivo, può essere causa di fallimento.



Tecniche e soluzioni a parte aggiungerei un ultimo appunto: scegliere di star bene con noi stessi e godersi il presente accogliendo quello che si ha e si ottiene è la conditio sine qua non per approcciarsi ai suddetti concetti! 

E' verosimile che in futuro accada qualche male: ma non è proprio sicuro. Quanti eventi inaspettati sono accaduti! E quanti, attesi, non si sono mai verificati. E se anche capiterà, a che giova andare incontro al dolore? Ti dorrai a sufficienza quando il male arriverà: frattanto augurati il meglio. […] Anche se il timore avrà più argomenti, scegli la speranza e metti fine alla tua angoscia
Seneca, Epistulae morales ad Lucilium
(...sì, sempre lui!)

martedì 17 ottobre 2017

Istruzioni per vincere: Come imparare a perdere!


Il plagio è un atto di omaggio. Chi copia ammira.
 Roberto Gervaso


Il mio non vuol essere un plagio, ma vorrei riportarvi questo interessante testo sulla "sconfitta". Il post è stato scritto il 17-10-2017 da Giulia Momoli per volleyball.it ....io mi limito a riportarlo qui integralmente. In fondo trovate anche dei riferimenti se volete approfondire. Buona lettura.

Giulia Momoli
Giulia Momoli

"Non si vince sempre.
Questa è una certezza: anche i numeri uno, anche i più forti del mondo sbagliano e perdono.
Probabilmente nella tua storia di atleta e di allenatore, così come nella vita di tutti i giorni ti sarà capitato di sentirti deluso per ciò che hai fatto o ciò che non hai fatto, o per un risultato ottenuto ben lontano dalla tua aspettativa.
Succede che, anche quando hai curato ogni dettaglio lavorando sodo, le cose non vadano come avevi sognato.
Chi gioca per vincere sa che la sconfitta è parte del sistema. Anche la più cocente e dolorosa.
Anche quella che ti risuona dentro per mesi, tormentandoti.
La delusione è parte di coloro che si espongono e lottano, è un fattore comune delle persone di successo: più ambisci a raggiungere importanti risultati e più è statisticamente probabile qualche intoppo.
sconfitta-Italia-femminile
Le persone che falliscono sono le persone che fanno!
Lo sport mi ha sempre fatto sperimentare picchi emozionali incredibili: da vittorie straordinarie che nutrono l’anima, a pesanti delusioni dalle quali credi di non riprenderti più.
Invece ci si riprende eccome, e non lo scrivo per sentito dire, o perché l’ho letto, o studiato.
Lo scrivo perché l’ho vissuto sulla mia pelle, e ben più di una volta! So che fa male, che brucia, ma incredibilmente nel calendario della mia mente le più crude cadute sono tuttora dei punti cardine della mia crescita come atleta e come persona.
Cadiamo. Perdiamo. Soffriamo. Queste esperienze non vengono menzionate nel nostro curriculum, ma grazie a questi fallimenti impariamo, progrediamo e ci evolviamo.
cec-volley-italia-femm-delusione1Quando pensi ad un campione o a una persona di successo, generalmente ti vengono in mente le sue medaglie, le sue epiche imprese sportive, le meravigliose vittorie, ma difficilmente pensi alle sue sconfitte, alle delusioni, alle volte in cui si è sentito affranto e sopraffatto. E magari ha pensato di mollare.
Cito qualche noto esempio di chi è stato respinto, rifiutato e ha fallito:
  • “Lei non è portata per la televisione”, Oprah Winfrey
  • Ha iniziato a parlare a 4 anni e a leggere a 9 e la sua insegnante gli ha detto: “Non sarai mai nessuno”, Albert Einstein
  • È stato licenziato dall’azienda che lui stesso aveva fondato, Steve Jobs
  • Gli hanno detto che gli mancavano l’immaginazione e le idee originali, Walt Disney
  • La sua insegnante diceva di lui: “è troppo stupido per imparare qualsiasi cosa”, Thomas Edison
  • A 15 anni fu espulso da 14 scuole, Sylvester Stallone
  • “Non ci piace la loro musica e non avranno futuro commerciale”, disse una importante casa discografica ai Beatles.
Per stare nell’ambito sportivo pensiamo alle storie di Valentino RossiFederica PellegriniUsain BoltMichael JordanLionel Messi. Leggendo le loro biografie puoi scoprire i meccanismi che permettono a questi campioni sportivi di eccellere, ma puoi anche trovare tutti i retroscena: ti renderai conto che queste persone incredibili sono necessariamente passate attraverso numerosi fallimenti prima di incontrare il loro successo.
In ogni storia ci sono momenti di grande sofferenza, non esistono grandi persone che abbiano avuto una vita facile.
Semplice? No. Automatico? Nemmeno.
Ma ci si può lavorare e lo sport coaching fornisce non solo strumenti e strategie utili a vincere, ma anche un supporto per imparare a perdere e gestire la sconfitta.
Ecco 6 passi per reagire al fallimento:
1. Accetta la sconfitta senza appellarti alla sfortuna o crearti degli alibi: vietato dare colpe ai compagni, all’allenatore, all’arbitro… anche se riscontri delle oggettività. Non ci sono persone da incolpare, ma responsabilità da assumersi e feedback costruttivi da dare. Cadere è parte integrante dell’imparare a camminare. La cosa importante è mantenere la fiducia e riprovare, questo approccio ti porta sempre più vicino al successo.
2. La sconfitta è nella gara, non nella vita: come abbiamo già detto in articoli precedenti, esamina i comportamenti tecnici, fisici e mentali che vanno migliorati o che non hanno funzionato, ma non andare mai mai mai ad intaccare la tua identità. Metterti in discussione dandoti del perdente o del fallito perché hai gestito male una partita è una scelta molto pericolosa per la tua autostima. Anche qui: valuta le tue azioni, il rendimento dei tuoi fondamentali, il tuo atteggiamento. E lavoraci.
A prescindere dall’entità della sconfitta, non perderai mai il tuo valore.
3. Prenditi cura della ferita che la sconfitta ha lasciato: trattala con riguardo. Spargici sopra la consapevolezza di chi sei, di quanto vali, di quanto hai già realizzato; nutrila della maturità che hai raggiunto come individuo e come squadra; donale quel pizzico di entusiasmo che ti ha permesso di arrivare a tutti i tuoi traguardi con l’atteggiamento da Vincente.
Italia---Rio20164. Impara a considerare la sconfitta non come un dramma, ma come una opportunità di rinascita: in termini di apprendimento la lezione che impari dopo una sconfitta viene ricordata molto più a lungo rispetto l’emozione effimera legata alla vittoria. Quando ti fermi a piangerti addosso per il tuo fallimento non cresci e non porti a casa niente di nuovo.
“Chi vince festeggia, chi perde impara.”
Dopo ogni errore hai l’occasione di perfezionarti e di diventare sempre più bravo, tendenzialmente se ci tieni a quello che fai e a come lo fai, più sbagli e più ti impegni subito dopo. In una costante ed esponenziale ottimizzazione delle tue capacità.
5. Mettici dentro le mani:
Nessuna squadra vince il campionato senza perdere qualche partita. Ovvio, dopo lo smacco nello spogliatoio c’è una grandissima delusione ma l’abilità dell’allenatore e dei giocatori sta proprio nell’analizzare l’incontro, capire ciò che non ha funzionato e allenarsi per migliorare i punti critici e confermare quelli di forza. Quindi, a bocce ferme (non quando l’emotività è ancora alle stelle!), risponditi a queste domande:
– Qual è la lezione oggi?
– Cosa imparo da questa esperienza?
– Come posso fare per migliorare?
Il segreto di chi alla fine poi vince è non darsi mai per sconfitti e tornare più forti ed agguerriti di prima. Considera che ogni battuta d’arresto è un’occasione per imparare qualcosa di nuovo.
6. Riposati e riparti:
Stacca la spina, riposati, ricaricati e al primo allenamento disponibile riparti con i tuoi nuovi obiettivi mettendo il focus su quello che hai analizzato e che va migliorato. Non c’è niente di meglio che darsi da fare per archiviare una delusione. Più migliorerai, più saranno le volte che vincerai.
“Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto”.
Michael Jordan
Come sempre ti invito a consultare il mio sito internet www.giuliamomoli.com e rimango a tua disposizione all’indirizzo g.momoli@ekis.it
A presto,
Giulia"

martedì 10 ottobre 2017

Pensa alla prossima palla!

Dicono che ci sia una differenza tra la temperatura reale e quella percepita, ma nella "sopportabile pesantezza dell'essere" la misura reale è senza dubbio il peso che percepiamo. 
Fausto Cercignani, Simply Transcribed


E' un po' di tempo che ho in testa questo post, ma non ho mai trovato il momento adatto per scriverlo: non perché fossi impegnato, ma l'argomento è tanto pesante quanto delicato e parlarne nel momento sbagliato potrebbe infastidire più di qualcuno.
Già il fatto di scrivere una frase come quella che avete appena letto dà il senso della gravosità con cui si può percepire l'argomento di questo post: l'errore!

Proprio lui. 
Anzi, per essere più precisi vorrei provare a discutere del modo malsano con cui si vive l'errore nel mio sport.

La pallavolo, si sa, è uno sport in cui l'errore fa la differenza tra una sconfitta o una vittoria, tra un top-player e uno che potrebbe diventarlo (e magari non lo diventerà mai).

Osservando me e tanti altri giocatori nel corso degli anni ho potuto notare alcune linee di pensiero sulla gestione degli errori.
Quella classica ha a che fare la tecnica. Gli allenatori o i giocatori che perseguono questa linea affermano che eseguendo bene un gesto tecnico si avrà come diretta conseguenza un'azione priva di errori. Il problema principale di questo concetto è che non tutti gli errori sono tecnici e, soprattutto, non basta fare tutto bene per vincere (anche se aiuta molto): bisogna anche fare qualcosa meglio dell'avversario.
Per risolvere l'errore di tipo tecnico ci sono 2 strade tra loro in antitesi:
- tante ripetizioni di un gesto fino a farlo diventare automatico e corretto;
- poche ripetizioni esatte di un gesto per aumentare il livello qualitativo dello stesso.
Scommetto che almeno una di queste due strategie l'abbiano provata sulla propria pelle tutti i pallavolisti!

Personalmente, sbagliando molto, le ho provate tutte e due!!! Devo dire che funzionano entrambe, ma di solito i giocatori(almeno quelli che sentono il bisogno di migliorarsi) preferiscono la prima per un motivo banale: lavorando di più ci si mette in condizione di sentirsi la coscienza pulita. Il concetto è: "ho lavorato tanto, di più non potevo fare, quindi mi sento a posto".
Non voglio dire di essere d'accordo o di pensare che questa sia la strada migliore, tutt'altro, ma per quanto possa sembrare banale e sciocco, pensarla in questo modo rende più tranquilli i giocatori e quindi li fa rendere meglio. Ovviamente anche l'allenamento aiuta, ma ad ogni modo non è di questo che parleremo. Oggi vorrei concentrarmi solo sull'aspetto mentale del "percepire" gli eventi e in particolare del "percepire" l'errore, vero soggetto di questo post.

L'errore o si subisce o si usa: non c'è altra storia. 
Apro un parentesi.
Spesso si chiede ai giocatori di pensare alla "prossima palla": una delle frasi più imprecise della storia del coaching perché cambia valore a seconda del contesto. Innanzitutto, se ammettiamo che quel che è andato è andato "pensare alla prossima palla" potrebbe essere una frase utilissima quando si fa punto piuttosto che quando lo si perde. Provate a pensarvi dopo aver fatto un colpo eccellente, magari uno di quei colpi da maestro che capitano una volta nella vita: cuore accelerato, battito a mille, cervello che fatica a focalizzare e magari, per i più timidi, anche la sensazione indiscreta di aver tutti gli occhi puntati addosso (cosa che 2 secondi prima nemmeno percepivano)...non mi sembrano proprio le condizioni ideali per approcciarsi all'azione seguente, che, oltretutto, sarà un'azione di contrattacco (abbiamo fatto punto, no?) e quindi condizionata da molte più variabili rispetto ad una di cambiopalla.

Chiusa la parentesi torniamo a noi riprendendo da dove avevo lasciato: pensare alla prossima palla è un concetto che cambia valore a seconda del contesto.

Un errore è un buon sistema di insegnamento: in allenamento non dev'essere dimenticato e in partita dev'essere gestito. Sbagliare è un'esperienza di crescita.

Quando perdi, non perdere la lezione.
Dalai Lama


E' importante non passare subito alla prossima palla ma fermarsi a riflettere per un secondo su quanto è successo per evitare si possa ripetere.

Facciamo attenzione a due situazioni classiche che si verificano in partita.

1. Sentire di aver commesso un errore e percepirne fastidio è buono, ma è assolutamente vietato far vedere al nostro avversario il nostro fastidio: soprattutto nell'alto livello equivale a scavarsi la fossa da soli perché il nostro rivale sicuramente andrà a insistere sulla situazione da noi sbagliata per farci ripetere l'errore o, dall'altro punto di vista, per prendersi un altro punto! 

2. Percepire l'errore come un fastidio è quasi sempre inteso con un'accezione negativa...da cui la frase (questa volta giusta nel contesto) "pensa alla prossima palla". E' proprio su questo che bisogna lavorare. Tornando al concetto espresso dalla frase del Dalai Lama: sfruttiamo l'esperienza e rendiamo il futuro positivo.

Come si fa? Bella domanda. 
La risposta (utopica?) è molto semplice: bisogna cambiare mentalità. Siccome questa frase mi suona veramente vuota cerco di esprimere meglio il mio pensiero: 
un amico mi raccontava di una sua esperienza giovanile in una classe di  una scuola statunitense (sì, ogni volta che si parla di mentalità e approcci positivi si finisce in USA....sarà ora di studiarli seriamente questi americani???). La professoressa aveva dato un compito uguale a tutti i ragazzi che, diligentemente, si erano messi a rispondere alle varie domande. Vedendo il suo compagno di banco in difficoltà il mio amico, da buon italiano, gli ha allungato il foglio con le risposte per farlo copiare. La reazione del compagno è stata pressoché fantascientifica per noi: piccato allontana il foglio delle risposte e continua a non rispondere fino alla consegna del compito. 

- Primo risultato(immediato): voto bassissimo. 
- Secondo risultato: il professore si è messo a rispiegare al suo compagno quello che aveva sbagliato, cercando la modalità comunicativa migliore, fino a che il ragazzo  non lo ha fatto suo.
- Risultato finale(nel lungo periodo): uno studente preparato.

Cambiare mentalità significa cambiare il modo di allenare. L'errore non dev'essere un mostro da cui scappare, ma un passaggio necessario verso il perfezionamento.

Ricercare questo tipo di approccio produce giocatori che:
1. ricercano il perfezionamento senza imporsi limiti mentali
2. non subiscono l'errore e quindi diventano meno attaccabili dagli avversari
3. migliorano a più ampio raggio: questo tipo di approccio è valido per gli aspetti tecnici così come per quelli tattici

Quest'anno in squadra ho l'occasione di avere due giocatori made in USA e devo dire che questo aspetto di leggerezza nell'approccio ad alcune situazioni di gioco è evidentissimo....devo ammettere, per uno dei due, che ogni tanto l'estrema leggerezza mi infastidisce un pochino perchè lo induce a complicare le giocate a discapito di qualche mio faticosissimo primo tocco, ma è giovane e si farà!!! ;-P

Tornando seri per un minuto ancora: la percezione di una situazione deriva dagli stimoli esterni che il giocatore assimila. Il processo è più facilmente modificabile con i giovani, ma ciò non esclude che anche i giocatori esperti possano beneficiarne, tutt'altro!!!! Non si smette mai di imparare...banale ma vero.

Il primo passo in questo senso, per un allenatore, è la programmazione: il coach deve sapere dove vuole portare(tecnicamente e tatticamente) la sua squadra.
Una volta stabilito l'obiettivo deve iniziare un bombardamento di stimoli positivi incentrati sul perfezionamento. Ogni processo è singolare e deriva dai caratteri di chi lo propone e di chi lo "subisce". Personalmente credo che uno degli aspetti più belli dell'allenare sia proprio quello di trovare il modo giusto di trasmettere le proprie idee ad ogni singolo giocatore.



Un invito a non incappare nell'errore contrario a quello di far pesare troppo l'errore: la superficialità.

Non sottolineare l'errore significa non riconoscere una situazione da modificare. Errore clamoroso.

Non dar peso a nessun errore non crea giocatori, ma un gruppo di gente che magari si diverte insieme e che sicuramente non migliora minimamente rispetto a quanto dovrebbe.

Non sottolineare il peso di un errore induce l'atleta a non capire le priorità: cosa è importante? "Quando" è importante? Perché qualcosa è più utile o semplicemente utile? Etc.

L’esperienza non è ciò che accade a un uomo. E’ ciò che un uomo fa di ciò che accade a lui.
Aldous Leonard Huxley

Un'ultima storiella personalissima. 
Qualche anno fa un mio collega del corso per allenatori di primo grado mi fece una domanda che mi diede un po' da pensare: "ho una giocatrice, libero, che non sopporta sbagliare. Ogni volta che fa un errore si senta affranta e di fatto smette di giocare. Cosa posso fare?" 
Forse ora riesco a integrare meglio la risposta, che già non era molto distante da quanto vado a scrivere. Il problema, in questo caso, riguarda la mancanza di esperienza, ma per imparare basta guardare "chi lo ha già fatto". Tutti commettono errori, anche i giocatori di alto livello. Far vedere che anche i top player sbagliano può essere sicuramente un modo per far capire che l'errore fa parte del gioco. Ovviamente va fatto in maniera poco approfondita, limitandosi più o meno al concetto che ho appena espresso senza indagare troppo e sviare verso altri lidi troppo particolari: anche la valutazione di uno sbaglio e il peso di uno stesso tipo di errore devono essere rapportati, così come le abilità tecniche o tattiche, al livello di gioco e all'età del singolo atleta. Un palleggio a 13 anni non è lo stesso palleggio a 30 anni seppur sempre di palleggio si parla: idem con l'errore.

Ricorda coach:
Se tratti una persona come se fosse ciò che dovrebbe e potrebbe essere, diventerà ciò che dovrebbe e potrebbe essere.
Johann Wolfgang Goethe



giovedì 28 settembre 2017

Un semplice racconto

Lo sostengo ogni giorno di più: lo SPORT produce INTEGRAZIONE



Preseason. Un giorno qualunque. Ieri.
La dirigenza ci comunica di anticipare l'arrivo in palestra per il giorno seguente (oggi) perché verranno a farci visita due preti per una benedizione. La notizia lascia tutti un po' perplessi. Per me, nonostante i miei due anni vissuti all'ombra della cupola della Santa Casa di Loreto, è una situazione mai capitata prima in palestra. Qualche risolino. Io che cerco di spiegare a qualcuno dei giocatori stranieri che non parla italiano cosa ci hanno comunicato. Gli stranieri che pensano che io stia confondendomi con i termini inglesi(sì...tra  noi giocatori la lingua "ufficiale" è l'inglese). Altri risolini. Qualche dubbio. Alla fine il messaggio arriva a tutti.

Preseason. Un giorno qualunque. Oggi.
Arriviamo in palestra. Due frati francescani arrivano al palazzetto. Ci riuniamo in spogliatoio. C'é anche il presidente. Sediamo sulle panchine. Frate(o padre...come si dice?) Danilo prende la parola e ci spiega il significato di "benedire" e come onorare questo termine. "Dire" è "fare" quello che possiamo "per" gli altri e "con" gli altri al meglio. Ci alziamo tutti, staff e dirigenti compresi. Benedizione con l'acqua per tutti. Nessuno escluso. Usciamo dallo spogliatoio. Foto di rito disposti su due righe in quest'ordine:

davanti
- n cattolici
- 2 frati
- un quadro raffigurante il San Francesco di Cimabue
dietro
- N mormoni
- N ortodossi
- N atei
- N cattolici
- etc

Tante religioni e tanti territori diversi in un'unica foto...anzi, dentro i 3 metri di un campo di pallavolo: 27mq di vera UNIONE.

Non è poi così difficile stare TUTTI insieme se c'è RISPETTO da parte di tutti. Oggi ne sono stati un esempio sia i frati nel porsi verso quello che banalmente consideriamo l'"altro" sia i miei compagni non cattolici che hanno rispettato senza nemmeno pensarci una tradizione della più diffusa religione dello stato che li ospita. Talmente semplice e normale da sembrare banale.
In fondo, se volessimo, sarebbe tutto più bello ...semplicemente.

Guardiamo alle religioni come alle mille foglie di un albero, ci sembrano tutte differenti, ma tutte riconducono a uno stesso tronco.
Mahatma Gandhi


sabato 9 settembre 2017

Ad esclusione dei professionisti: cose da evitare con metodo!

Fino al momento precedente a quello in cui cominciamo a scrivere, abbiamo a nostra disposizione il mondo [...] il mondo dato in blocco, senza né un prima né un poi, il mondo come memoria individuale e come potenzialità implicita [...]. Ogni volta l'inizio è quel momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore è l'allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare.
Italo Calvino, Le città invisibili


Tradotto in maniera che anch'io possa capire: per arrivare al concetto esatto è necessario eliminare tutti i concetti che non riteniamo tali (sottointeso: "e non vuol dire che non lo siano in senso assoluto")!

Come mai questa premessa?
Semplicemente perché a partire da una singola frase creatasi nella mia testa, in seguito a un'esperienza diretta e recente(durata sì e no 5 secondi), si sono sviluppati trecentomila pensieri confusi che mano a mano ho dovuto scartare per trasformare l'ira in un momento di ragionamento proficuo. Ciò non toglie che il semplice "fare un ragionamento" non implica automaticamente che lo stesso sia corretto o, per l'appunto, proficuo.

Premesso che non racconterò il fatto per evitare problematiche, cominciamo dal principio: la frase!
La riporto così come mi è apparsa in testa purgandola per quanto possibile:

"Va bene che sono una persona complicata e magari difficile da capire, ma quanti rincoglioniti presuntuosi ci sono in giro?"

Sì, lo so: non è proprio all'altezza delle citazioni che di solito uso per questo blog!!! Anzi, detta così sembra solamente uno sfogo, ma non essendo stata proferita ad alta voce non ha mai nemmeno assunto tale ruolo....diciamo che è stata solo la scintilla per un ragionamento sui professionisti, ma, soprattutto,su coloro che si ritengono tali.

Vediamo, innanzitutto, la definizione di professionismo e professionalità, due concetti che tendono a sovrapporsi e che in Italia sembrano essere alquanto vaghi.
Mi affiderò al dizionario Treccani:

Professionismo: l’esercizio di un’attività con carattere professionale. In particolare, esercizio dell’attività sportiva con carattere di esclusività e continuità, su una base di impegni contratti e dietro retribuzione regolare e costante.

Professionalità: Qualità di chi svolge il proprio lavoro con competenza, scrupolosità e adeguata preparazione

Tanto per dire: un dilettante può essere professionale così come un professionista può non esserlo.
Il punto è proprio questo: molti si improvvisano ciò che non sono e credono di saper fare ciò che effettivamente non sanno fare.

Riportando la cosa nel mio mondo sportivo, siccome per essere competenti in un campo non è strettamente necessario possedere un titolo specifico, possiamo dire che un giocatore può essere un lavoratore molto professionale. Sicuramente non siamo lavoratori professionisti vista la normativa della federazione pallavolistica italiana. Lo dico senza polemica: il volley, per chi non lo sapesse, è uno sport dilettantistico e conseguentemente ha uno statuto che lo inquadra ed identifica come tale. That's all folks!



Il ragionamento non vale solo per i giocatori, ma anche per tutte le figure che compongono uno staff, sebbene queste siano autorizzate a fare il loro mestiere da un titolo riconosciuto, quantomeno, a livello federale. Si può dibattere sulle capacità che dia il raggiungimento di tali titoli, ma è anche vero che spesso l’esperienza riesce a supplire alla mancanza di un percorso formativo  professionale fungendo da formazione in itinere. D’altro canto, però, non è ammissibile inventarsi professionista di un lavoro che si conosce poco o niente affatto.

Quindi: mi sta bene che chi si dimostra professionale possa aspirare ad essere un professionista (che già di per sé, concettualmente, è una forzatura ammissibile solo per lo stato dei fatti in Italia), ma non mi sta bene che automaticamente ci si definisca tali senza adeguata esperienza.
La professionalità va ben oltre il concetto di competenza o abilità specifica e racchiude un insieme di fattori sia tecnici che (udite udite)umani.
Quante volte si sente dire: "il suo lavoro lo sa fare, ma non sa trattare con le persone/giocatori/staff?". Oppure: "ne sa parecchio, ma ha un caratteraccio..."
Di fatto cosa si sta dicendo di questo presunto "professionista"?
E' competente, ma incapace di relazionarsi con i propri interlocutori sotto il profilo umano, di creare un rapporto empatico. Siccome nello sport si ha a che fare con persone, l’aspetto umano è da considerarsi condicio sine qua non per instaurare una collaborazione o un rapporto professionale proficui.
Ergo: è bravo, ha competenze, ma è tutto inutile perché non sa trasmetterle o, peggio ancora, chi deve riceverle crea barriere in ingresso per evitare un contatto, seppur solo di carattere lavorativo, con questo presunto professionista.

Sto descrivendo un quadro molto negativo che non è specchio del 100% della realtà ovviamente...ad onor del vero nemmeno del 50% nella pallavolo...anzi: decisamente meno. Però, partendo dal meccanismo di individuazione di un concetto (di cui alla prima riga del post) e avanzando per eliminazione dei punti superflui, provo a estrarre un'indicazione utile e a rispondere  alla seguente domanda:

Quali sono le caratteristiche che bisogna evitare di avere per non essere definiti "presunti professionisti"?

Nella mia personale esperienza ho incontrato 4 profili negativi classici di "colleghi" presunti professionisti. Ho notato che spesso sono una reazione inconsapevole di chi involontariamente li adotta o un sistema di difesa di chi si sente inadeguato.
Non so se abbiano un nome scientifico o se siano solo frutto della mia mente...ad ogni modo li denominerò in maniera tutt'altro che professionale:

1. Il fenomeno
Autoincensarsi, parlare in modo poco lusinghiero dei colleghi, esprimere critiche non costruttive, mostrarsi incapaci di un’autentica dialettica e non saper fare rete sono le sue caratteristiche peculiari.

2. Il duro.
Tra i 4 è quello che odio di più.
E' solitamente una persona inesperta, insicura di sé, che non vuole darlo a vedere. Per evitare di essere colta in fallo evita il dialogo: si fa come dice lui, senza spiegazioni perchè è giusto così. Punto. La cosa più bella è che qualsiasi tipo di interazione provi ad avere con il "duro", lui non la percepisce. Mi spiego meglio: magari sarebbe anche in grado di dissipare i tuoi dubbi(essendo insicuro conosce e ha studiato a menadito la teoria), ma dovendosi far vedere preparato e più forte di te sull'argomento o dici quello che vuole lui o non si parla.
ATTENZIONE: Laddove decida di sbilanciarsi, rispondere e spiegare qualcosa è vivamente sconsigliato fargli ulteriori domande: il rischio è una risposta brusca e piccata o, peggio ancora, una punizione del tipo "non ti parlo più" o "farò di tutto per dimostrare agli altri che non sei all'altezza di essere qui".
Il "duro" per l'appunto....

E pensare che le persone "dure", quelle realmente forti, non hanno blocchi dovuti al giudizio degli altri, anzi: sono quelle più disposte al dialogo proprio perché sicure dei loro pilastri interiori fondamentali. Non sono le nozioni a renderci "duri", ma la consapevolezza dei nostri limiti e la conoscenza di noi stessi.

Oltretutto l'inesperienza è una condizione ricorrente per chi cerca nuovi orizzonti, vede cose nuove e vuole progredire

C. L'ignavo...anche detto il camaleonte. In realtà il termine preciso è più volgare e, perciò, eviterò di usarlo.
Si asserve al capo o al suo diretto superiore. Nel caso dei giocatori segue quello più acclamato dalle folle (ovvero: non sempre segue il migliore!). Alcuni si adattano in maniera camaleontica al contesto o al target, sostenendo idee funzionali all’uno o all’altro. Ingegnosità? Sopravvivenza? Sicuramente tra i 4 è la variante del presunto professionista che paga di più in termini personali. Sono quelli che fanno più strada in rapporto alle loro reali capacità. A mio modesto avviso, però, sono le persone che in assoluto contribuiscono di meno alla crescita della squadra, anzi: spesso aiutano ad indirizzare gli sforzi di tutti in un vicolo cieco o verso direzioni pericolose e controproducenti. Banalmente: sono convinto che coerenza e onestà intellettuale ripagano sempre. Utopia? Secondo me no, ma sicuramente sono qualità difficili sia da trovare che, dall'altro lato, da mettere sul piatto: richiedono sacrificio e fatica (e non a livello fisico!).

D. Il professore
Un altro «peccato» è propugnare le proprie idee e convinzioni come fossero la bibbia del settore. Mai dimenticare che esiste ed esisterà sempre qualcuno migliore di noi, da cui imparare e prendere esempio. Un professionista deve sentirsi sempre inappagato, non preparato a sufficienza, deve essere proiettato nel futuro e non deve accontentarsi mai.

Già che ci sono dò una bacchettata anche dal lato opposto dello schieramento: l’eccesso di umiltà e modestia non sempre è positivo, talvolta può rivelarsi addirittura pregiudizievole. Come detto prima, una giusta dose di sana consapevolezza di sé non guasta mai, soprattutto nello sport.

Finora ho cercato di individuare ciò che non vorrei mai essere.
A questo punto devo fare come Calvino: eliminare tutti i possibili "me stessi" non utili alla creazione del "me stesso" esatto....sarà un compito arduo, ma credo che individuare il problema e comprenderlo sia il primo (e unico) passettino necessario per partire alla ricerca della giusta soluzione!

Elimina e ragiona, ragiona ed elimina mi troverò.... ma nel frattempo bisognerà cercare di perseguire un'altra qualità per pochi, ma più facilmente individuabile: l'umiltà...aspettando che l'esperienza faccia il suo corso.



Questi sono i modi con cui possiamo mettere in pratica l’umiltà: parlare il meno possibile di noi stessi; rifiutare di immischiarci negli affari degli altri; evitare la curiosità; accettare allegramente le contraddizioni e le correzioni; passare sopra agli errori altrui; accettare insulti e offese; accettare di venir disprezzati, dimenticati e non amati; non cercare di essere particolarmente prediletti e ammirati; rispondere con gentilezza anche se provocati; non calpestare mai la dignità di nessuno; cedere alla discussione, anche se si ha ragione; scegliere sempre ciò che è più difficile.
Madre Teresa di Calcutta

martedì 5 settembre 2017

ItalVolley nel paese delle meraviglie

“Che strada devo prendere?” chiese.
La risposta fu una domanda:
“Dove vuoi andare?”
“Non lo so”, rispose Alice.
“Allora, – disse lo Stregatto – non ha importanza.”

[...]

“Siccome non era in grado di rispondere a nessuna delle domande, non dava molto peso alla maniera in cui se le poneva.”

Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie




In questi giorni ho letto e ascoltato molto a proposito degli Europei appena passati e del futuro della nostra pallavolo. Ho un paio di considerazioni da fare prima di passare ai miei soliti ragionamenti fuori tema:

1. La prima è banalissima. Siamo il solito paese di allenatori da dopo partita: tutti bravi a criticare dopo, ma come al solito la maggior parte di chi parla non solo non ha minimamente idea di cosa significa giocare a pallavolo a quel livello ma, probabilmente, nemmeno di cosa voglia dire giocare a pallavolo.
Devo dire che in questo gioco del tiro al piccione alcuni dei telecronisti italici sono degli ottimi e ingiustificati apripista nonostante qualcuno di loro un po' di esperienza ne abbia. Sarebbe bello sentire parlare di pallavolo non solo in maniera negativa, ma coinvolgente e tecnica....ma questa è un'altra storia. Apro una parentesi: la critica è sempre legittima, ma credo sia il caso di pensare bene a quel che si dice o scrive per non incappare in banalizzazioni astratte!

2. "possibile che i problemi saltino fuori solamente quando si perde sebbene siano presenti già da molto tempo?"
Questa frase contiene in sé altre 2 considerazioni:
a. vincere diventa un alibi o uno specchio in cui bearsi del risultato senza studiare e progredire o, quanto meno, cercare il progresso
b. non si può essere perfetti, ma ciò non toglie che anche con dei problemi, se ben analizzati e affrontati, si possa arrivare a degli ottimi risultati.

Detto questo non ho alcuna intenzione di fare analisi tecniche o tattiche perché non ne ho voglia ma, soprattutto, perché non ho abbastanza elementi per farlo in maniera esatta visto che non ho vissuto direttamente il gruppo dell'Italia.

Di cosa parlerò? Di alcuni pensieri che mi sono venute in mente ascoltando i commenti:
1. "c'è modo e modo di perdere"
2. "bisogna inserire più giovani se vogliamo vincere"
3. "programmazione" ...una parola che è sempre di moda, ma a cui difficilmente fa seguito qualcosa

C'è modo e modo di perdere.
Nella mia idea: se perdo ho perso. Punto. E' una semplificazione esagerata ovviamente, ma molto vicina alla realtà. Pensiamola in senso storico:
In semifinale la Serbia ha perso 3-2 con la Germania e il Belgio 3-0 con la Russia. La sconfitta della Serbia vale molto di più di quella del Belgio? Naturalmente no.
Al contrario: l'Italia ha perso 3-0 con il Belgio, ma solo 3-2 con la Germania vice-campione, il che potrebbe far pensare che l'Italia sia più forte del Belgio visto che i Red Dragons non sono arrivati in finale con i Tedeschi...alibi o facezia?? Consentitemi questi ragionamenti da bar per sottolineare che non ha senso parlare di "modi di perdere".

Per perdere a pallavolo c'è solo un modo:
giocare peggio degli avversari. 

Allo stesso modo c'è solo un modo per vincere:
GIOCARE MEGLIO DEGLI AVVERSARI, 
che non implica giocare bene o esprimere il massimo livello pallavolistico assoluto. Per vincere basta effettuare una prestazione di "due palloni" migliore dei rivali (per usare parole di Angelo Lorenzetti).

“Ma io non voglio andare fra i matti” osservò Alice.
“Be’, non hai altra scelta” disse il Gatto. “Qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta.”
“Come lo sai che sono matta?” disse Alice.
“Per forza,” disse il Gatto, “altrimenti non saresti venuta qui.”
Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie


Finiti gli sproloqui cerco di tornare serio almeno per un momento. Al di là delle mie chiacchiere esistono diversi modi di approcciare una partita ed, eventualmente, perderla.
La prima cosa che decreta l'importanza di una sconfitta è l'obiettivo che ci siamo posti: se l'obiettivo è molto più alto rispetto alla partita persa allora è un problema, altrimenti no. Per dirla in altri termini: se una serie C che vuol vincere un campionato perde contro una A1 o una terza divisione in amichevole è un conto, ma se perde contro una diretta rivale durante i playoff è tutta un'altra storia. Stabilire un obiettivo realistico è la base per poter analizzare una sconfitta.

Secondariamente c'è la storia del cosiddetto "atteggiamento". Io odio parlare di atteggiamento, ma se si fa parte di un gruppo Nazionale la sconfitta sportiva è la sconfitta di un paese. L'identità di un popolo è sportivamente rappresentata dai suoi gruppi sportivi e vedere perdere senza lottare DEVE dare molto fastidio a tutti noi. Sentire all'estero dire: "Ah, gli italiani, un popolo inconsistente che alla prima occasione si sbriciola" non è che mi fa incazzare(perdonate il termine), di più: noi non siamo così e chi ci rappresenta deve provarlo. Essere in Nazionale vuol dire rappresentare un popolo. A proposito di questo, mi ha dato da pensare anche la squadra di atletica leggera ai recenti mondiali: contenti per un decimo posto o per "esserci": noi siamo italiani, un po' di orgoglio. Sono ottimi risultati e ognuno ha la sua storia personale, ma dobbiamo aspirare a qualcosa di più come CONI. La nostra storia e la nostra identità ce lo impongono...ma questi discorsi oggigiorno credo siano utopici purtroppo.
Voglio crede di aver appena scritto una frase sbagliatissima.

Bisogna inserire più giovani se vogliamo vincere
Non capisco dove sia la connessione tra gli elementi di questa frase: se vogliamo vincere dobbiamo inserire dei vincenti...che poi abbiano 2 anni o 82 quale differenza fa? La domanda è: "vogliamo vincere?" Oppure, qual è l'obiettivo?

“Allora dovresti dire quello a cui credi», riprese la Lepre Marzolina.
“È quello che faccio”, rispose subito Alice. “Almeno credo a quello che dico, che poi è la stessa cosa”.
“Non è affatto la stessa cosa!” disse il Cappellaio. “Scusa, è come se tu dicessi che vedo quello che mangio è la stessa cosa di mangio quello che vedo!”
Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie

Pensando alla nostra nazionale, oltretutto, credo si possa dire tutto tranne che i convocati non siano giovani e non abbiano talento. Io personalmente credo che bisogna reinserire il concetto di "sconfitta" o "vittoria" nei vari campionati: se in A1 perdere non ha implicazioni(non si retrocede), chi non gioca per vincere perché dovrebbe dannarsi l'anima a cercare la vittoria?

Lo stesso discorso va fatto a cascata in A2, B, C, D e le divisioni.

E mi collego al discorso programmazione. Programmare non vuol dire far arrivare sistematicamente i giovani nelle serie maggiori con regolamenti specifici, ma imparare a farli crescere dal basso e selezionare solo chi lo merita. Se ripenso al mio primo anno di B1 (e io non sono assimilabile come giocatore ai talenti del club Italia, sebbene nel mio piccolo qualche soddisfazione me la sono tolta), ero l'unico 18enne in una squadra con 4/5 giocatori tra i 20 e i 25 anni e gli altri tutti over 30 (e nemmeno di poco). Vivere con gente più forte e più "anziana" è utile ed è fonte di esperienza e conoscenza. Aggiungo una seconda considerazione: se giochi male chi lo dice che devi salire di categoria? Meritatelo!

La programmazione attuale confonde il "sopravvivere" con il "vivacchiare".
Sopravvivere implica impegno, fatica e sconfitte brucianti che portano a vittorie. Vivacchiare implica giocare a pallavolo con un puro fine estetico o di intrattenimento. Quando poi chi vivacchia si trova a dover sopravvivere che succede?

Le piccole società e i settori giovanile devono creare i talenti, e tutti dovrebbero accompagnare, non coccolare, sia i piccoli clubs che i neo-giocatori...attualmente si accompagnano solo i giocatori!!! Le piccole società sportive sono le nostre radici. I settori giovanili sono la nostra linfa vitale. Le persone, di qualsiasi età e ruolo, sono il cuore. Da loro bisogna ripartire per dover sperare di affrontare tanti problemi in meno in futuro. Accompagniamole e aiutiamole. Proviamo a conoscere sistemi che funzionano un po' meglio del nostro...basket? Calcio? Tennis? Agli esperti la risposta, io non ne ho le capacità sebbene senta la necessità di fare qualcosa di più.

Detto ciò l'Italia del Volley ha giocatori forti, tecnici preparati e un gran cuore, ed oltretutto ospiteremo il prossimo mondiale. Secondo me potremo fare bene nonostante i problemi e son sicuro che ci riusciremo, ma la vittoria non dovrà essere l'ennesimo alibi.

La pallavolo in Italia può tornare a crescere. Serve tempo, volontà di riportare lo sport e le persone al centro del progetto e chiarezza di intenti: il momento, anche mediaticamente,  è quello giusto... però ragazzi sbrighiamoci a cercare il cambiamento dell'anima del nostro favoloso sport che al mondiale manca poco e a Tokyo ancora meno!

Bianconiglio – "Povero me! Povero me! Arriverò in ritardo!"
Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie



sabato 19 agosto 2017

Scrivere salverà il mondo?

L'arte di scriver storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci s'accorge che quel che si sapeva è proprio un nulla.
Italo Calvino, Il cavaliere inesistente



Scrivere salverà il mondo??
Non lo so, però potrebbe farci stare meglio.

Innanzitutto la domanda è: perché dovrei scrivere?? Serve molto tempo che nel caos della vita quotidiana è difficilissimo trovare; è faticoso; ci pone sotto il giudizio di altri e non c' guadagno economico se non per scrittori professionisti.

Allora perché la gente scrive o dovrebbe farlo?
1. Ci aiutare a buttare fuori le nostre emozioni. Pensando a grandi del passato come i vari Kafka, Pascoli, Petrarca si tratta soprattutto di tirar fuori emozioni negative (dolore, rabbia, frustrazione).
2. Aiuta a riordinare le idee. In questo senso riflettere o raccontare la propria vita o episodi di essa ci permette di instaurare un dialogo interno a noi stessi che produce una portentosa analisi e rielaborazione dei fatti, oltre a fermare i pensieri (che nella nostra mente vagano sparsi e in modo confuso)!
3. L'azione dello scrivere è fisicamente più onerosa, in termini di tempo, di quella del pensare: riversare parole su un foglio rallenta temporaneamente il flusso di pensieri, favorendo un sano distacco dalle forti emozioni e fornendo al tempo stesso un effetto liberatorio.

Da quasi vent'anni un crescente numero di studi di carattere prevalentemente psicologico (ma non solo), ha dimostrato come scrivere, soprattutto riguardo ad eventi negativi, può far bene.

James W. Pennebaker, psicologo esperto in “benefici della scrittura”, in una lunga serie di studi sperimentali chiese alle persone di scrivere emozioni e pensieri riguardo ad eventi particolarmente difficili e traumatici della loro vita, per alcuni minuti e per alcuni giorni, cercando cosi di capire i meccanismi sottesi al potere dello scrivere; definì con il termine di “scrittura espressiva” questo suo paradigma sperimentale. In seguito a questi esperimenti Pennebaker capì che scrivere le proprie emozioni, i pensieri e i sentimenti più profondi riguardo ad un evento traumatico, stressante e fortemente emotivo, poteva incidere positivamente sulla salute fisica e psicologica in quanto questo permetteva una maggiore rielaborazione mentale ed emozionale degli eventi, facilitando così la comprensione ed il significato di certi avvenimenti e del proprio stato d’animo.
Secondo altri studiosi, Sloan & Marx, 2004, il fatto di scrivere dei pensieri ed emozioni più profonde riguardo ai propri traumi o eventi negativi e dolorosi, indurrebbe un miglioramento dell’umore, un atteggiamento più positivo e una migliore salute fisica.
Leggendo senza approfondire troppo sono rimasto particolarmente sorpreso e incredulo dal rapporto tra la scrittura espressiva e i miglioramenti fisiologici che essa porta! Si tratta di parametri fisici, passatemi il termine, molto rilevanti tra cui:
- frequenza cardiaca;
- pressione sanguigna;
- aumento dei linfociti-T del sistema immunitario;
- sistema nervoso autonomo.
Non solo, ma oltre agli aspetti fisiologici sono stati classificati anche quelli benefici di tipo psicologico derivanti dallo scrivere:
- stress e ansia: permettendo un’espressione delle emozioni inibite e nuove modalità di affrontare le situazioni ansiogene e stressanti;
- depressione: favorendo pensieri, sentimenti più positivi e nuove modalità di coping e di problem solving;
- disturbo post traumatico da stress: facilitando una diminuzione dei sintomi del disturbo;
- difficoltà emotive in pazienti con cancro: permettendo un miglioramento dell’umore attraverso l’espressione degli stati d’animo dolorosi;
- disturbi del comportamento alimentare: inducendo un miglioramento nella propria immagine corporea ed una diminuzione dei sintomi del disturbo;
- alessitimia: permettendo un miglioramento dell’inibizione emotiva;
- difficoltà nelle relazioni sociali: favorendo una migliore comunicazione interpersonale.



Nel 2002, Lepore, Greenberg, Bruno e Smyth riscontrarono un particolare meccanismo alla base dello scrivere:
La Regolazione delle emozioni. 
Lo scrivere faciliterebbe l’autoregolazione delle emozioni, permettendo un miglior controllo di queste e trasmettendo all’individuo una maggiore auto efficacia, in quanto questo processo induce la sensazione che i traumi, gli eventi stressanti e i cambiamenti, possano essere maggiormente controllati, riducendo di conseguenza i sentimenti negativi e generando un miglior benessere psico-fisico.

Non bisogna essere scrittori per poter scrivere: l’uso dei social network favorisce in parte l’abitudine di scrivere di noi stessi con altre persone, ma forse basterebbe anche solo scrivere su un bel foglio di carta come una volta per ottenere effetti benefici.

Se scrivere delle proprie emozioni negative può fare bene, scrivere in un blog può risultare ancora più efficace. Capite meglio ora perché una mente contorta come la mia bazzichi da queste parti??
Una ricerca svolta dall'University of Haifa in Israele ha dimostrato i benefici che derivano dalla scrittura. Scrivere in un blog permette di fare il salto dal "confronto con se stessi" al "confronto con il mondo esterno". La maggior parte delle persone infatti, hanno paura di esprimere le proprie debolezze, per paura di essere giudicati e non voluti, mentre sembrerebbe che questa paura non si manifesti o comunque si manifesti di meno dal confronto con gli estranei. Oltretutto scrivere in un blog  può portare ulteriori punti di vista e nuove soluzioni alle quali spesso chi scrive per sé non riesce ad arrivare in quanto vive all'interno del problema stesso!

E torniamo al solito discorso:

no man is an island!



No man is an Island, intire of it selfe; every man is a peece of the Continent, a part of the maine...
John Donne, Devotions Upon Emergent Occasions 

Scrivere questo post mi ha permesso di smaltire il nervosismo dovuto alle (ahimé) solite notizie del tg, e ricordare che le cose importanti per vivere in una società perfetta sono sempre le stesse:
rispetto(di se stessi e degli altri), ascolto e dialogo....ce la faremo mai???
Chissà che ragionarci su scrivendo e prendendosi il tempo per riflettere sulle nostre azioni non aiuti un po' tutti a creare un mondo migliore.

martedì 1 agosto 2017

La quotidiana guerra di un allenatore di volley

E’ stato ar fronte, sì, ma cor penziero,
però te dà le spiegazzioni esatte
de le battaje che nun ha mai fatte,
come ce fusse stato pe davero.

Avresti da vedè come combatte
ne le trincee d’Aragno. Che gueriero!
Tre sere fa, pe prenne er Montenero,
ha rovesciato er cuccomo der latte.

Cor su sistema de combattimento
trova ch’è tutto facile: va a Pola,
entra a Trieste e bombarda Trento.

Spiana li monti, sfonna, spara, ammazza,
Pe me – borbotta – c’è ‘na strada sola”
e intigne li biscotti ne la tazza.

Trilussa, L’eroe ar caffè




Da neofita e sprovveduto nel mondo “dell'allenamento” e “dell'allenare” (o del coaching come si dice ora) mi capita spesso di tenere le orecchie ben aperte per cercare di apprendere tutto quello che si può imparare, come si dice a Roma, aggratise (traducendo: “gratuitamente”) dalle esperienze e dai racconti di chi quel mondo lo ha vissuto e lo vive più di me.

Giocando da un po' di anni in giro per l'Italia ho avuto anche la fortuna di vedere e sentire campane diverse, partecipare a corsi di vario genere e argomento e, ultimo ma non meno importante, vivere sulla mia pelle alcune situazioni.

In questi giorni, tranquillamente seduto a cena a un tavolo di amici allenatori, per l'ennesima volta ho dovuto sentire come in quel luogo in cui ci trovavamo ci fossero i migliori allenatori d'Italia. Non faccio nomi perché lo stesso discorso lo potrei fare per tanti altri luoghi della penisola fornendovi ogni volta una spiegazione plausibile e vera. Tutti quanti siamo sempre nel posto in cui si fa la migliore pallavolo!
Quando, però, parliamo di risultati, sia in termini di vittorie sportive, che di creazione di talenti o di programmazione tutti tornano in trincea: “ma qui i soldi sono pochi”, “ qui c'é il calcio che porta via i talenti”, “non ci sono le palestre”, etc. Solitamente il discorso poi finisce, a meno che il sottoscritto non si innervosisca (purtroppo sto invecchiando e capita sempre più spesso), più o meno così: “guarda la storia, qui ci sono da sempre giocatori e squadre importanti”, etc..

Riassumendo: è tutto bello, ma quando fai notare che non è proprio così escono fuori le scuse e si adducono prove delle proprie capacità che a volte risalgono fino anche agli anni '70!
Ovviamente, come sempre, sto esagerando e generalizzando un po' il concetto per renderlo più chiaro.

Quello che mi chiedo è: una volta appurato che siamo in una situazione buona, media o pessima, cosa può fare un allenatore per renderla migliore, a prescindere di come la valuta? Come può fare andare avanti la pallavolo senza rivangare i fasti del passato o cercare col lanternino i buoni risultati del presente?

Su questo discorso si potrebbe aprire un mondo, ma quello che io credo è che sia la persona a fare la differenza in un sistema: dopodiché se il sistema è funzionante e funzionale è ovvio che i risultati del singolo saranno maggiormente esaltati e utili alla comunità piuttosto che in un sistema poco oliato e mal funzionante. Resta il fatto che la persona giusta, anche in un posto difficile, può e deve fare la differenza. Non sono sprovveduto: parto dal presupposto che per “posto difficile” si possa intendere (ed è sacrosanto) anche mancanza di spazi, stipendi, ragazzi, palloni...ma non possibilità o opportunità!

Dando per assodate tutte queste premesse mi sono chiesto se potrò mai diventare un allenatore con tutte le carte in regola? Conseguentemente la domanda è: quali sono le caratteristiche che un allenatore deve avere per produrre risultati?

Apro una parentesi: il risultato è l'obiettivo programmatico della società o dell'allenatore e non per forza combacia con la vittoria sul campo!

Mi è rimasto molto impresso un dialogo che ho avuto con un allenatore della Mens Sana Basketball Academy, settore giovanile senese, tra i migliori in Italia, che mi faceva notare come dietro il loro allenare c'è una filosofia ben definita che ha l'obiettivo di creare giocatori (e allenatori!) di primo livello a scapito anche di titoli nazionali che, modificando di poco alcune metodologie di allenamento, potrebbero essere ottenuti con relativa facilità o comunque, potrebbero essere un po' più alla portata. Chiudo qui la parentesi altrimenti mi dilungo troppo.



Ho provato, pertanto, basandomi anche su analisi di esperti e chiacchieroni da bar (non tutto quel che viene detto al bar è sbagliato, anzi!) a identificare alcune caratteristiche che un allenatore secondo me deve avere:

1. Curiosità
Sottotitolo: coraggio, passione e competenza
Non potevo non metterla per prima visto l'inizio del post. Per curiosità intendo la voglia di studiare e aggiornarsi, la ricerca di stimoli e il coraggio di sperimentare: senza curiosità non c'è miglioramento, ma uno stallo continuo che porta all'indolenza e toglie brio in primis all'allenatore e, in rapida successione, a tutti i giocatori. La mancanza di curiosità intesa in questo senso è, secondo me, la malattia comune alla maggior parte degli allenatori a tutti i livelli. Essere curiosi implica fatica e sacrifici che quasi sempre non hanno un corrispettivo tangibile. Chi vive di curiosità si nutre di passione: forse il tempo storico non è quello giusto per una dieta del genere, ma credo che se si sceglie di diventare allenatori bisogna mettere in conto questa situazione. Un allenatore è un innovatore, un ricercatore e una figura dinamica per definizione. Chi allena senza pensare, tanto per passare due ore in palestra, dovrebbe ripensare qualcosa della sua vita!

2. Comunicatività
Questo punto è tanto banale quanto vasto. Il concetto è molto semplice: sul lungo periodo, se vuol essere seguito da una squadra, un buon allenatore deve essere in grado di sentirla e farsi sentire. Questo punto è molto importante e anche causa di molti fraintendimenti: la comunicazione è bidirezionale! Esistono e si stanno sviluppando in questi anni tanti studi e metodologie per migliorare la capacità di far comprendere agli altri quello che si vuole dire. Per allenare non basta: si può essere ottimi oratori, ma pessimi comunicatori. Per comunicare bisogna dire ed ascoltare o, meglio ancora, sentire e sentirsi! Da questo punto di vista mi permetto di fare una considerazione molto personale e datata nel tempo. Ho avuto la fortuna di avere come allenatore in nazionale juniores, qualche secolo fa, Angelo Lorenzetti, attuale allenatore di Trento. Per la mia esperienza lui non era un abile oratore, ma è stato un eccellente comunicatore perché da giocatore percepivo fiducia e sapevo sia quali erano i miei obiettivi sia che, se avessi fatto quello che mi suggeriva lui, li avrei raggiunti.
Altro esempio è Mauro Berruto per la comunicatività sul breve periodo. Di lui si può dir tutto tranne che non sia un bravo e ordinato oratore/scrittore (al di là dell'essere d'accordo su quello che dice che nel nostro caso è irrilevante), ma più che questo aspetto mi piaceva di lui la gestione della comunicazione nel time-out: tre input, mai di più, precisi, espressi in maniera chiara e che di solito davano ad ogni giocatore una sola cosa a cui pensare. Facendo un confronto televisivo con Lorenzetti si può notare questo:
il time out di Berruto dà informazioni chiare anche a chi è seduto sul divano di casa con birra e/o gelato in mano, quello di Lorenzetti è assolutamente incomprensibile. Eppure vi assicuro che l'efficacia è la stessa per i giocatori perché gesti e parole chiave che sottintendono concetti hanno lo stesso peso per chi li riceve di un discorso ben articolato se dietro c'è altro. In entrambi i casi non importa solo come si dice qualcosa, ma come funziona lo scambio bidirezionale giocatori/allenatori: se questo funziona la squadra viaggia insieme compatta e si supera tutto...altrimenti non si va da nessuna parte.
Comunicare è “dare e essere recettivi nel ricevere”



3. Esempio (o leadership?)
Un allenatore è una guida a tutti i livelli e in tutti i sensi, non solo nel gioco e nei suoi sviluppi. A livello giovanile secondo me dev'essere, addirittura, prima un educatore (che non deve sostituirsi alla famiglia, ma affiancarla) e poi un tecnico.
La cosa che ho notato è che se un giocatore non considera un buon esempio nella vita di tutti i giorni il suo allenatore, non gli darà rispetto nemmeno in palestra: il che non significa che non obbedirà ai suoi comandi, ma che semplicemente lo farà in maniera meccanica, senza metterci del suo e bloccando quella comunicazione bidirezionale di cui si parlava al punto 2.
L’allenatore, sia nei settori giovanili che nelle prime squadre, è l’esempio. La sua mentalità, il suo modo di fare e il suo atteggiamento influenzeranno di conseguenza il comportamento dei giocatori. Per questo, in questa caratteristica, non rientra solo il carisma, ma anche l’immagine e l’educazione. Essere una persona limpida, senza ombre, aiuta all’interno di uno spogliatoio e permette al tecnico di essere sempre in una posizione di forza rispetto ai giocatori.

A questo aggiungerei la capacità di affrontare tutte le situazioni con un atteggiamento positivo, dinamico e, tornando al punto 1 del post, di curiosità.

Come allenatore ho la responsabilità per quello che si fa in campo ma anche fuori, per questo cerco di conquistarmi il ruolo di leader, per farmi seguire. Si dice che io incuta timore, ma per imporsi non ci sono spartiti precisi, bisogna cercare di farsi seguire, col buon esempio, attraverso il comportamento personale. 
Zdeněk Zeman




4. Competenze e capacità di riportarle ai propri giocatori
Questo punto si spiega da solo. Bisogna STUDIARE per pensare di poter allenare! E quando dico studiare non mi riferisco solo alla tecnica o alla tattica, ma anche ai modi per rendere le nozioni facilmente assimilabili dai nostri giocatori. Penso che aver giocato possa aiutare, ma solo in piccola parte. La competenza, infatti, va ben oltre l’esperienza. Bisogna entrare nell’ottica di essere innanzi ad un nuovo punto di partenza ed essere delle “spugne” pronte ad assorbire ogni insegnamento, scevri di preconcetti e convinzioni antecedenti. Solo con questa base si può divenire poi un allenatore competente, in grado di imparare anche dopo anni e anni di carriera e adattarsi alla continua evoluzione del mestiere.

5. Autocritica e capacità di gestire i giudizi
Aggiungerei anche la capacità di gestire i pregiudizi!
Fondamentalmente è tutto semplice quando i risultati arrivano e la squadra gira alla grande. Ma la carriera di un allenatore è fatta principalmente da sconfitte più che da vittorie (a parte rare eccezioni). Per questo è fondamentale saper essere autocritici, capire quando l’errore sta a monte e non a valle, cioè alla sconfitta sul campo da gioco. Questa qualità è necessaria per un allenatore che vuole innovare e migliorare, se stesso come la squadra. E ricordiamoci sempre che la vittoria non è solo quella legata al risultato del campo!
Discorso critiche. Personalmente mi danno un fastidio esagerato, però passato il primo momento di permalosità mi sono state sempre molto utili (da giocatore) per due ragioni:
a. sono uno stimolo a far vedere che sono forte (perché nessuno lo dice, ma tutti pensano di esserlo...credo sia una condizione sine qua non è impossibile giocare ad alti livelli o raggiungere obiettivi molto importanti in relazioni alle proprie capacità)
b. che ci piaccia o no molte sono critiche giuste. Oltretutto ascoltare più punti di vista ci consente di avere un quadro più completo della situazione e sviluppare soluzioni più centrate e idonee



6. Capacità di programmazione
Questa abilità la vorrei intendere in senso ampio: non è solo costruire un programma tecnico o tattico, ma viverlo e portarlo avanti quotidianamente adattandolo e supportandolo.
Ogni allenatore, anche involontariamente, parte con delle proprie idee o basi. Può essere un sistema di gioco, un determinato tipo di mentalità, una visione tecnica: ogni allenatore imposterà il proprio lavoro su queste fondamenta. È dunque importantissimo che un buon tecnico sia in grado di programmare il lavoro del suo gruppo, passo dopo passo, sulla base di metodi in cui crede fermamente. Non si possono improvvisare allenamenti o lezioni tattiche. Bisogna essere al tempo stesso pronti ai cambiamenti, ma pazienti nell'attendere i risultati. Cambiare, restare in equilibrio e avere pazienza: elementi in antitesi ma tutti ingredienti follemente fondamentali per ogni allenatore che voglia raggiungere i suoi obiettivi.
Aggiungo una considerazione: avremo a che fare con ragazzi di cui circa la metà verrà scontentata ogni domenica, con dei tifosi che pretendono risultati e con una dirigenza che pretende il raggiungimento di determinati obiettivi. Da allenatori saremo il filo che collega tutte queste posizioni, il funambolo che, in base alla situazione da affrontare, è sempre costretto a scegliere senza snaturare la programmazione: niente arriva subito e perciò l'arte dell’attesa è fondamentale. Saper attendere e, soprattutto, incassare i colpi è, purtroppo o per fortuna, una capacità che se non abbiamo dovremo sviluppare se vogliamo fare questo lavoro!


Credo che senza anche solo una di queste 6 caratteristiche definirmi "allenatore" sia molto ottimistico. Vorrei chiudere lo sproloquio odierno facendo mia e adattando una frase di derivazione calcistica che penso mi apparterrà quando passerò dall'altro lato, se mai accadrà in maniera definitiva e univoca:

[Il calcio] La pallavolo è già difficile per chi ne capisce, figuriamoci per gli allenatori.

[Franco Rossi ft] Myself