mercoledì 28 giugno 2017

Camminare in vetta

La montagna mi ha fatto capire che è da sciocchi mettere la vita in banca sperando di ritrovarla con gli interessi. Mi ha aiutato a non essere troppo tonto, anche se un po’ tonti si è tutti da giovani. Mi ha insegnato che dalla vetta non si va in nessun posto, si può solo scendere.
Mauro Corona, Nel legno e nella pietra



Siamo spesso portati a pensare che una vittoria sia un punto di arrivo. Quante volte paragoniamo un'impresa sportiva ad una scalata? Preparazione, fatica, sforzo continuato e finalmente raggiungimento della vetta!
Leggendo la frase di Corona ho realizzato una cosa talmente ovvia e banale quanto vera: arrivati in cima alla montagna siamo solo a metà strada, perché bisogna scendere se si vuole realizzare qualcos'altro nella vita!
Oltretutto chi corre in montagna, o anche chi è appassionato di passeggiate tra i monti, sa bene che la discesa può essere difficile tanto quanto la salita se non di più!
Non credo ci sia un'immagine più esatta di questa per definire la difficoltà di confermarsi vincente: non basta scalare una montagna, ma bisogna scendere e ripartire ancora.

A voler essere più precisi la discesa è assimilabile a quella parte scivolosissima del riconfermarsi in cui si mescolano pericolosamente sentimenti di soddisfazione, euforia e rilassamento ad aspetti tecnici e di allenamento molto diversi da quelli che un atleta vive durante la fase finale della sua competizione.

La fase post competizione è un periodo di cambiamento nell'allenamento e nella preparazione che si interseca con mille situazioni di disturbo (psicologico ma non solo) e può generare un aspetto boomerang che per alcuni atleti è devastante. Affrontare male una discesa, azione che percepiamo come facile, ci abbatte e ci rende frustrati: questo aspetto, contrapposto all'euforia della vittoria appena perseguita viene amplificato generando un turbinio di sensazioni negative che entrano nell'animo dell'atleta proprio quando questo giunge finalmente a valle e deve ripartire per una nuova scalata.

Allenarsi per eccellere avendo la testa assente e distratta o con la testa “negativa” è totalmente non producente.

Dopo queste considerazioni la domanda è: come rendere un atleta vincente nel lungo periodo? Risposta: motivazione, vittorie (dove per “vittorie” leggete “obiettivi raggiunti”) e allenamento del killer instinct.

Partiamo dal presupposto che momenti di distrazione e rilassamento non solo sono normali, ma consigliati! E' impossibile per chiunque essere sempre al 100% fisicamente o a livello di concentrazione.
Il killer instinct è proprio quella capacità di estrarre il 100% del potenziale nei momenti che contano e, secondo me, è allenabile!

Come allenare il killer instinct? Semplice: dando ai propri atleti un obiettivo raggiungibile (e fin qui niente di nuovo da qualsiasi manuale) e che a loro piace raggiungere!

Leggendo la biografia di Federer salta fuori che già a cinque anni si allenava con impegno nel tennis, amava questo sport e aveva dei compagni con i quali aveva una rivalità positiva (obiettivo raggiungibile e che a lui piaceva raggiungere) per motivarsi a migliorare costantemente e dare il massimo sia in allenamento che in partita. A lui piaceva vincere quando giocava a tennis!
E' quindi passato a chiedere lezioni personalizzate all'età di dieci anni: veniva preso in giro perché già così piccolo dichiarava che voleva diventare il migliore al mondo!
C'è una regola non scritta: se non vuoi sul serio diventare il migliore al mondo non diventerai mai il migliore al mondo.
Ovviamente non tutti ci riescono, ma quelli lo fanno se lo erano posti come obiettivo fin da piccoli. A 14 anni Federer era ormai il migliore della sua età in tutta la svizzera. Il resto è storia.



Riprendendo le fila del discorso direi che un bravo allenatore deve usare la fase di “discesa dal monte” per inculcare questo aspetto del godere nel centrare l'obiettivo nella mentalità dell'atleta. Tornando al paragone montanaro di prima, scendere lasciandosi andare comporta cadute scoordinatissime! La discesa, molto più della salita, va fatta con passi brevi e accorti: così possiamo approfittare della leggerezza mentale dell'atleta per dargli obiettivi nuovi, ma facilmente raggiungibili, migliorando la sua esperienza positiva.

Faccio un esempio. Quando torno in palestra dopo una sconfitta importante mi sento pesante e nervoso, al contrario dopo una vittoria mi sento galvanizzato e propositivo. Dopo la vittoria è il momento giusto per perfezionare gli aspetti della tecnica che faccio bene, ma non benissimo. In soldoni è il momento di perfezionarsi. E' il momento di consolidarsi, non di cercare novità. La successione logica è più o meno:

- non cambio gli equilibri
- posso concentrarmi su qualcosa che già mi viene bene, quindi nella peggiore delle ipotesi non andrà male e resto inconsciamente concentrato e positivo
- miglioro di poco, ma frequentemente perché curo aspetti singoli e specifici
- continuo ad immagazzinare elementi e situazioni positive

Quest'ultimo punto tornerà utilissimo quando l'atleta si ritroverà nel corso della nuova scalata: in pratica rivivrà le situazioni di successo precedenti e quindi dirà al suo corpo di dare il massimo sapendo già quali sensazioni ricercare.
E' un meccanismo di auto-motivazione che si può indurre indirettamente col giusto sistema di allenamento.
A questo perfezionamento, parte centrale dell'allenamento, piano piano aggiungerei sommessamente anche gli aspetti meno buoni e che più necessitano migliorie: trovandoli nel mezzo di sensazioni positive saranno più facilmente digeriti e assimilati dall'atleta. Un cambiamento ci deve essere, ma non deve risiedere nella testa!

D'altronde il vecchio adagio recita:
Si cambia sempre quando le cose vanno positivamente; non è sufficiente fare le cose bene e in maniera corretta: 

Bisogna fare le cose meglio. Solo così si continuerà a vincere.

Un buon promemoria
solo vincere aiuta a vincere!

sabato 24 giugno 2017

I prefer not to

Capisci ora, Bulkington? Sembra che tu afferri barlumi di quella verità intollerabile ai mortali, che ogni pensare serio e profondo è soltanto l'intrepido sforzo dell'anima per mantenere la libera indipendenza del suo mare, mentre i venti più selvaggi della terra e del cielo cospirano a gettarla sulla costa traditrice e servile. Ma siccome nell'assenza della terra soltanto sta la suprema verità senza rive, infinita come Dio, così meglio è perire in quell'abisso ululante che venire vergognosamente sbattuto a sottovento, anche se in questo fosse la salvezza. Poiché, allora, oh! chi vorrebbe come un verme strisciare vilmente a terra? Terrore dei terrori! È così vana tutta quest'angoscia? Coraggio, Bulkington, coraggio! Tienti ferocemente, semidio! Su dagli spruzzi della tua morte oceanica, su, in alto, balza la tua apoteosi! 
Herman Melville, Moby Dick




Prefazione:
Il titolo è un'altra citazione di Melville, ma tratta da "Bartleby lo Scrivano".
La domanda che voglio fare è: hai capito qual è la responsabilità e la bellezza del ruolo dell'allenatore?? Perché sceglierlo come "mestiere"? 

Se non hai già la risposta probabilmente prima di approcciarti a questo ruolo è meglio che ci pensi ancora un po'!!
Nel frattempo provo a vedere se per caso con questo post riesco a chiarire (e a chiarirmi) le idee!!

Non mi era mai capitato di trovare qualcun'altro che come me associasse pensieri sportivi e libri....ecco invece un divertente articolo sulla figura dell'allenatore scritto da Dino De Angelis e tratto dal sito http://www.rmsport.it:

"Il coach è di per sé una creatura piuttosto strana, spesso solitaria e ciononostante in grado di dettare la strada per tutti quelli che gli ruotano intorno: in primis i giocatori che ha a disposizione, ma poi anche tutto l’ambiente, i tifosi, i dirigenti, i mass media. Con i giornalisti si sforza da sempre di avere un atteggiamento di cordialità – del resto non potrebbe fare altrimenti -,  ma qualche volta vorrebbe mandarne a quel paese qualcuno che proprio certe sue mosse non le ha capite e non le capirà mai. Eppure, se non lo provocano con domande troppo idiote specialmente dopo una sconfitta, risponde sempre con un sorriso, mostrando tutta la sua disponibilità.

Figura quasi mitologica, se dovessimo rappresentarlo con una sola immagine, il coach lo vedremmo bene come il capitano Achab: dorme poco la notte (specie prima delle partite) , durante la partita sta sempre in piedi in quella piccola porzione preassegnata di parquet che gli sta sempre troppo stretta, e capita sovente che l’arbitro che si trova a passare dalle sue parti gli dice che deve stare attento a non oltrepassare  quel rettangolo (sono quelli i momenti in cui vorrebbe rispondergli: “ma tu pensa alla partita”, ma ancora una volta si trattiene, per non incorrere in qualche stupida sanzione).

Se non ce l’ha con tutti poco manca. Gli arbitri sono nemici da abbattere al secondo/terzo fischio. Solo che non può. In trasferta ci sono anche le tifoserie che ogni tanto un coro glielo riservano, vorrebbe anche lì alzare il dito medio, invece si gira dall’altra parte e sorride amaro (“ve la faccio vedere io, a fine partita cosa ne dovete fare dei vostri fischi”).

Ma i suoi bersagli preferiti, nella maggior parte dei casi, sono proprio i suoi giocatori. Ma com’è possibile che non fanno esattamente come hanno provato cento volte in allenamento? Ha una parola per tutti, e la maggior parte di quelle parole non sono precisamente delle rose profumate.

In quel rettangolo maledetto in cui è confinato sembra uno che sta scontando qualche pena, il capitano Achab che è sempre attento ad avvistare quella Balena Bianca imprendibile che riappare e subito dopo scompare e lui lì, ogni maledetta domenica  a cercare la rotta giusta per afferrarla, pronti, via, e ogni volta si ricomincia con una palla a due.

Noi spettatori, noi giornalisti, noi fotografi, noi pubblico seduto sugli spalti o in poltrona davanti alla tv, il suo lavoro non lo vediamo mai per quello che è veramente. E non è facile capire il lavoro di un uomo dalla partita che andiamo a seguire: lo osserviamo di tanto in tanto sempre piuttosto solitario, passeggiare e a volte agitarsi e gridare come se fosse stato morso dalla tarantola. Tutto il resto  è un oscuro  lavoro sottocoperta, un lavoro riservato a quei pochi che condividono con lui l’impresa di preparare la battaglia, ovvero la partita, la croce e la delizia che decideranno il suo destino, le sue passeggiate a bordo campo, le sue alzate di mano, le grida durante i quaranta minuti (che sembrano pochi e invece non finiscono mai), e i ritorni a casa la sera, dove, tanto per cambiare, accende la tv e si sintonizza su un canale a vedere qualche altra partita in qualche altro pezzo di mondo. È fatto così. Carattere duro e orgoglioso, lupo solitario e famelico mascherato da agnellino, si placa solo dopo una vittoria, ma dura poco, un giorno al massimo. Se invece ha perso, quella calma non dura nemmeno quel giorno e di notte gli ritorna in mente tutto il film della partita, ma al rallentatore, così può esaminare scena per scena tutte le cazzate che hanno decretato l’insuccesso. Non gli serve per colpevolizzare qualcuno, ma solo per capire meglio il da farsi per la partita successiva. E così gli passano i decenni come fossero minuti di un time-out."

Per altri spunti di riflessione, tratti da Melville, sull'"allenatore", suggerirei di partire dal titolo o da questa frase che segue:

L'anima è come la quinta ruota in un carro.

Qual è o dov'è l'anima di un team?





lunedì 19 giugno 2017

Non saremmo troppo liberi?

Libertà è il diritto di fare ciò che le leggi permettono. Se un cittadino avesse il diritto di fare ciò che è proibito, non sarebbe libertà, perché chiunque altro vorrebbe avere lo stesso diritto.
(Montesquieu)

Nel mondo attuale per libertà s’intende la licenza, mentre la vera libertà consiste in un calmo dominio di se stessi. La licenza conduce soltanto alla schiavitù.
(Fëdor Michajlovič Dostoevskij)





Oggi farò ragionamenti a raffica su un ruolo della pallavolo che da quando è stato inventato crea interrogativi agli addetti ai lavori: il libero!

Per alcuni è il ruolo di chi non ha il fisico o è troppo basso per giocare a pallavolo come un giocatore normale. Per altri è il colpevole numero uno dello svilimento del ruolo del centrale. Alcuni ritengono sia una notevole variante tattica... potrei andare avanti così per ore, ma direi che può bastare.

In realtà per chi vive quotidianamente la palestra quelle che ho appena scritto sono solo chiacchiere. I punti principali di dibattito riguardano due aspetti:
1. specializzazione giovanile
2. “psicologia” del ruolo, cioè: a cosa serve e come far fruttare la presenza di questi rapidissimi nanerottoli che girano per il campo nel miglior modo possibile.


Apro una parentesi a proposito del concetto di “nanerottoli”. Ci tengo a fare due precisazioni per quel che riguarda almeno la serie A (A1 o A2 è indifferente):
- mediamente un libero è alto tra i 178 cm (io quest'anno ero tra i più bassi in A2 e questa è la mia altezza) e i 190 cm...considerando che la statura media in Italia per i maschi è 175cm siete sicuri nel dire che siamo bassi??? Parliamone....

- c'è stato un periodo, qualche anno fa, in cui si cercavano liberi alti in modo che potessero coprire un'area maggiore di campo limitando lo spostamento, che nell'alto livello, è spesso impossibile eseguire su tratti “lunghi” vista la velocità a cui viaggia il pallone.

Chiusa parentesi!




Tornando a noi.
Perché scrivere un post del genere?
Qualche giorno fa ho assistito alle finali nazionali giovanili under 18 a Fano: ho visto un episodio (ripetuto più volte) che mi ha fatto veramente irritare e non ho potuto fare a meno di ragionarci su. Per spiegare meglio il mio punto di vista premetto che io non conosco la storia dei gruppi che hanno partecipato alla competizione e quindi penso ai fatti proiettandoli su di me.

La scena:
Libero in zona in ricezione. Dall'altro lato del campo un buon battitore in salto che serve un pallone da 1 a 1 vicino la riga. Il libero svassoia il bagher verso l'esterno del campo. Ace. Cambio. Primo libero in panchina. Entra il secondo libero(mai visto in campo fino a quel momento) che ha la fortuna che il secondo servizio, pressoché identico al primo nello sviluppo, finisca out di 5 cm o poco meno.

Premesso che il primo libero stava giocando bene, la domanda è: perché non dare una correzione tecnica o un suggerimento tattico prima di sostituire? Esempi classici: alza la spalla esterna o fai un passettino più a destra.
La sostituzione dopo un errore a volte è necessaria, ma io credo che la questione stia un po' sfuggendo di mano agli allenatori per diverse ragioni:

A. è più semplice sostituire che correggere...e soprattutto è più semplice cambiare che faticare ad allenare
B. esempio dell'alto livello: purtroppo negli anni in cui le squadre che vincono usano il doppio libero (o come Trento anni fa o come la Lube quest'anno che addirittura usava il secondo al posto di uno schiacciatore) a cascata nelle giovanili aumenta la diffusione di questa pratica.

Purtroppo:

Non esistono piani giusti e piani sbagliati e non esistono regole migliori di altre. Esistono piani che vincono, e quelli stabiliscono le regole che gli altri, ingenuamente, adotteranno come regole giuste.
(Alessandro Baricco)

C. Il regolamento! Ebbene sì: polemizzo anch'io, sperando di incuriosire. Secondo regolamento il libero ha la maglia diversa per poter essere identificato dall'arbitro quando entra ed esce dal campo in quanto può farlo senza richiedere il cambio...e il nodo sta proprio qui! Mi chiedo: un giocatore verrebbe tolto con cotanta superficialità dal campo (vedi esempio sopra) se questo costasse uno dei 6 cambi a disposizione?? Non credo. Il fatto è che togliere il libero è troppo facile. A volte il cambio è più un gesto di stizza che una scelta tattica. Sto generalizzando volutamente, ovviamente, per rendere più chiara la problematica. In un ruolo che ha una psicologia delicata come quello del libero una cosa del genere non è mai molto produttiva. Per quel che riguarda l'uso dei due liberi anche qui vorrei aprire una parentesi che si ricollega al concetto del “cambio”. In certi casi è necessario avvicendare due persone nel ruolo, ma occhio all'effetto “libero” nel valutare i rendimenti:

- il libero di ricezione se sbaglia una sola palla rende imperfetta la sua prestazione che, conseguentemente, agli occhi di uno spettatore assume connotati negativi. Anche dal campo la difficoltà è proprio quella: se non commetti errori hai semplicemente fatto il tuo, altrimenti sei in difetto Peraltro ho scoperto che questo aspetto è molto sentito dai giovani liberi (è uno dei problemi principali dei giocatori di età bassa per loro stessa ammissione) mentre i veterani piano piano si stanno adattando seppur con fatica e ritrosia.

- il libero di difesa funziona al contrario: puoi sbagliare tutti i palloni, ma se ne prendi uno incominci a costruire una prestazione dall'effetto positivo.

Riassumendo: mentre il secondo costruisce una prestazione, l'altro non deve demolirla. Non so se vi sembra la stessa cosa, ma c'è un mondo di differenza riassumibile nei termini “positivo” e “negativo”: cambiare il primo perché sta avendo una prestazione che a sensazione sembra negativa col secondo che ne sta avendo una positiva potrebbe essere un errore o un colpo di genio su cui vi invito a riflettere bene. E' giusto fidarsi delle sensazioni, ma qui la storia è alquanto particolare e le sensazioni possono essere molto discordanti dalla realtà!




Detto ciò, ogni squadra ha la sua storia ed io vorrei solo provare a rispondere ai punti di cui in ordine sparso ho parlato sopra:

1. specializzazione: il problema quando "nacque" il libero fu che era un ruolo troppo specializzante. Adesso siamo arrivati ad avere due liberi nell'alto livello giovanile. Il mio consiglio personale è di non andare a specializzare ulteriormente un libero dandogli il ruolo di difensore o ricettore: oltre a diventare noioso per chi gioca non creeremo un giocatore completo. Sotto questo aspetto già di per sé il ruolo non aiuta: soprattutto ora che il libero deve anche essere un secondo alzatore in campo più cose si sanno fare e meglio è!

2. Copiare l'alto livello è un errore enorme. Conoscere l'alto livello è importante perché dobbiamo puntare, da allenatori, a creare anche quel tipo di giocatori. Riproporre pedissequamente in un under 18 quello che si fa in serie A è perfettamente inutile: bisogna programmare un cammino di crescita per arrivare in serie A a fare determinati esercizi o combinazioni.

3. Regolamento. Premetto che non ho bevuto anche se farò una proposta per poi riproporre quello che potrebbe sembrare il suo contrario.

Proposta A: inserire il cambio del libero “con paletta” tra i 6 cambi a disposizione dei coach. Giochi male. C'è uno in panchina che può far meglio. Ti accomodi. Easy. Succede per tutti. Il vantaggio è che obbliga sia il coach che il giocatore a dover pensare e cercare una soluzione per affrontare una situazione scomoda. Questo,  secondo me, porterebbe una maggior attenzione al problema anche in allenamento. Si perderebbe l'uso del doppio libero, però a livello giovanile forse si avrebbe un maggior focus sul ruolo.

Proposta B: cambi simili alla versione "Americana". Riporto di seguito dal libro delle regole NCAA poi aggiungo la mia proposta

USAV
15.6: a. Twelve substitutions are the maximum permitted per team per set. Substitution of one or more players is permitted at the same time.
b. A player in the starting line-up may leave the set and re- enter, but only in his/her previous position in the line-up (Exception 15.7).
c A substitute may enter a set in the position of a teammate in the starting line-up.
d. Unlimited individual entries by a substitute within the team’s allowable 12 substitutions are permitted. Each entry must be in the same position in the line-up.
e. More than one substitute may enter the set in each position.

A proposito: se siete curiosi qui potete leggere come funziona a livello regolamentare la pallavolo giovanile USA: NCAA MensVolleyball Rulebook

La mia proposta è: cambi liberi. 12 o infinite sostituzioni, ma di chiunque su chiunque senza l'obbligo di chiudere il cambio. Questo porta 2 conseguenze immediate (oltre a tante evoluzioni fantasiose che per non dilungarmi troppo eviterò di esplorare):

1. aumento della complessità tattica di una partita in quanto le rotazioni di inizio set delle due squadre potrebbero essere molto diverse da quelle di fine set.
2. egualitarismo nel cambio. Sicuramente questo porta una maggiore specializzazione, ma a tempo stesso tutti i ruoli e tutti i giocatori avrebbero lo stesso peso in campo: cambierebbe l'approccio psicologico al concetto di ruoli e probabilmente avremmo più giocatori open-minded abituati a entrare ed uscire senza farsi domande...per intenderci ci dirigeremmo verso qualcosa di simile a una partita di football americano!

PS: solo per difendere la categoria a spada tratta.... a differenza che in Italia, secondo il regolamento NCAA il libero può essere il capitano!! Il “può” è anche scritto in grassetto!


Per concludere l'unica cosa che ho capito dopo questi "ragionamenti" è che essere “liberi” non è poi così semplice.
Riprendendo la frase di Montesquieu con cui ho aperto il post torno a ribadire che, comunque vada, per essere liberi in una società, squadra o in un gruppo civile bisogna sottostare a delle regole che devono essere aiuto e ispirazione!

....credo proprio che di liberi, regole e libertà si discuterà ancora molto....