giovedì 28 settembre 2017

Un semplice racconto

Lo sostengo ogni giorno di più: lo SPORT produce INTEGRAZIONE



Preseason. Un giorno qualunque. Ieri.
La dirigenza ci comunica di anticipare l'arrivo in palestra per il giorno seguente (oggi) perché verranno a farci visita due preti per una benedizione. La notizia lascia tutti un po' perplessi. Per me, nonostante i miei due anni vissuti all'ombra della cupola della Santa Casa di Loreto, è una situazione mai capitata prima in palestra. Qualche risolino. Io che cerco di spiegare a qualcuno dei giocatori stranieri che non parla italiano cosa ci hanno comunicato. Gli stranieri che pensano che io stia confondendomi con i termini inglesi(sì...tra  noi giocatori la lingua "ufficiale" è l'inglese). Altri risolini. Qualche dubbio. Alla fine il messaggio arriva a tutti.

Preseason. Un giorno qualunque. Oggi.
Arriviamo in palestra. Due frati francescani arrivano al palazzetto. Ci riuniamo in spogliatoio. C'é anche il presidente. Sediamo sulle panchine. Frate(o padre...come si dice?) Danilo prende la parola e ci spiega il significato di "benedire" e come onorare questo termine. "Dire" è "fare" quello che possiamo "per" gli altri e "con" gli altri al meglio. Ci alziamo tutti, staff e dirigenti compresi. Benedizione con l'acqua per tutti. Nessuno escluso. Usciamo dallo spogliatoio. Foto di rito disposti su due righe in quest'ordine:

davanti
- n cattolici
- 2 frati
- un quadro raffigurante il San Francesco di Cimabue
dietro
- N mormoni
- N ortodossi
- N atei
- N cattolici
- etc

Tante religioni e tanti territori diversi in un'unica foto...anzi, dentro i 3 metri di un campo di pallavolo: 27mq di vera UNIONE.

Non è poi così difficile stare TUTTI insieme se c'è RISPETTO da parte di tutti. Oggi ne sono stati un esempio sia i frati nel porsi verso quello che banalmente consideriamo l'"altro" sia i miei compagni non cattolici che hanno rispettato senza nemmeno pensarci una tradizione della più diffusa religione dello stato che li ospita. Talmente semplice e normale da sembrare banale.
In fondo, se volessimo, sarebbe tutto più bello ...semplicemente.

Guardiamo alle religioni come alle mille foglie di un albero, ci sembrano tutte differenti, ma tutte riconducono a uno stesso tronco.
Mahatma Gandhi


sabato 9 settembre 2017

Ad esclusione dei professionisti: cose da evitare con metodo!

Fino al momento precedente a quello in cui cominciamo a scrivere, abbiamo a nostra disposizione il mondo [...] il mondo dato in blocco, senza né un prima né un poi, il mondo come memoria individuale e come potenzialità implicita [...]. Ogni volta l'inizio è quel momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore è l'allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare.
Italo Calvino, Le città invisibili


Tradotto in maniera che anch'io possa capire: per arrivare al concetto esatto è necessario eliminare tutti i concetti che non riteniamo tali (sottointeso: "e non vuol dire che non lo siano in senso assoluto")!

Come mai questa premessa?
Semplicemente perché a partire da una singola frase creatasi nella mia testa, in seguito a un'esperienza diretta e recente(durata sì e no 5 secondi), si sono sviluppati trecentomila pensieri confusi che mano a mano ho dovuto scartare per trasformare l'ira in un momento di ragionamento proficuo. Ciò non toglie che il semplice "fare un ragionamento" non implica automaticamente che lo stesso sia corretto o, per l'appunto, proficuo.

Premesso che non racconterò il fatto per evitare problematiche, cominciamo dal principio: la frase!
La riporto così come mi è apparsa in testa purgandola per quanto possibile:

"Va bene che sono una persona complicata e magari difficile da capire, ma quanti rincoglioniti presuntuosi ci sono in giro?"

Sì, lo so: non è proprio all'altezza delle citazioni che di solito uso per questo blog!!! Anzi, detta così sembra solamente uno sfogo, ma non essendo stata proferita ad alta voce non ha mai nemmeno assunto tale ruolo....diciamo che è stata solo la scintilla per un ragionamento sui professionisti, ma, soprattutto,su coloro che si ritengono tali.

Vediamo, innanzitutto, la definizione di professionismo e professionalità, due concetti che tendono a sovrapporsi e che in Italia sembrano essere alquanto vaghi.
Mi affiderò al dizionario Treccani:

Professionismo: l’esercizio di un’attività con carattere professionale. In particolare, esercizio dell’attività sportiva con carattere di esclusività e continuità, su una base di impegni contratti e dietro retribuzione regolare e costante.

Professionalità: Qualità di chi svolge il proprio lavoro con competenza, scrupolosità e adeguata preparazione

Tanto per dire: un dilettante può essere professionale così come un professionista può non esserlo.
Il punto è proprio questo: molti si improvvisano ciò che non sono e credono di saper fare ciò che effettivamente non sanno fare.

Riportando la cosa nel mio mondo sportivo, siccome per essere competenti in un campo non è strettamente necessario possedere un titolo specifico, possiamo dire che un giocatore può essere un lavoratore molto professionale. Sicuramente non siamo lavoratori professionisti vista la normativa della federazione pallavolistica italiana. Lo dico senza polemica: il volley, per chi non lo sapesse, è uno sport dilettantistico e conseguentemente ha uno statuto che lo inquadra ed identifica come tale. That's all folks!



Il ragionamento non vale solo per i giocatori, ma anche per tutte le figure che compongono uno staff, sebbene queste siano autorizzate a fare il loro mestiere da un titolo riconosciuto, quantomeno, a livello federale. Si può dibattere sulle capacità che dia il raggiungimento di tali titoli, ma è anche vero che spesso l’esperienza riesce a supplire alla mancanza di un percorso formativo  professionale fungendo da formazione in itinere. D’altro canto, però, non è ammissibile inventarsi professionista di un lavoro che si conosce poco o niente affatto.

Quindi: mi sta bene che chi si dimostra professionale possa aspirare ad essere un professionista (che già di per sé, concettualmente, è una forzatura ammissibile solo per lo stato dei fatti in Italia), ma non mi sta bene che automaticamente ci si definisca tali senza adeguata esperienza.
La professionalità va ben oltre il concetto di competenza o abilità specifica e racchiude un insieme di fattori sia tecnici che (udite udite)umani.
Quante volte si sente dire: "il suo lavoro lo sa fare, ma non sa trattare con le persone/giocatori/staff?". Oppure: "ne sa parecchio, ma ha un caratteraccio..."
Di fatto cosa si sta dicendo di questo presunto "professionista"?
E' competente, ma incapace di relazionarsi con i propri interlocutori sotto il profilo umano, di creare un rapporto empatico. Siccome nello sport si ha a che fare con persone, l’aspetto umano è da considerarsi condicio sine qua non per instaurare una collaborazione o un rapporto professionale proficui.
Ergo: è bravo, ha competenze, ma è tutto inutile perché non sa trasmetterle o, peggio ancora, chi deve riceverle crea barriere in ingresso per evitare un contatto, seppur solo di carattere lavorativo, con questo presunto professionista.

Sto descrivendo un quadro molto negativo che non è specchio del 100% della realtà ovviamente...ad onor del vero nemmeno del 50% nella pallavolo...anzi: decisamente meno. Però, partendo dal meccanismo di individuazione di un concetto (di cui alla prima riga del post) e avanzando per eliminazione dei punti superflui, provo a estrarre un'indicazione utile e a rispondere  alla seguente domanda:

Quali sono le caratteristiche che bisogna evitare di avere per non essere definiti "presunti professionisti"?

Nella mia personale esperienza ho incontrato 4 profili negativi classici di "colleghi" presunti professionisti. Ho notato che spesso sono una reazione inconsapevole di chi involontariamente li adotta o un sistema di difesa di chi si sente inadeguato.
Non so se abbiano un nome scientifico o se siano solo frutto della mia mente...ad ogni modo li denominerò in maniera tutt'altro che professionale:

1. Il fenomeno
Autoincensarsi, parlare in modo poco lusinghiero dei colleghi, esprimere critiche non costruttive, mostrarsi incapaci di un’autentica dialettica e non saper fare rete sono le sue caratteristiche peculiari.

2. Il duro.
Tra i 4 è quello che odio di più.
E' solitamente una persona inesperta, insicura di sé, che non vuole darlo a vedere. Per evitare di essere colta in fallo evita il dialogo: si fa come dice lui, senza spiegazioni perchè è giusto così. Punto. La cosa più bella è che qualsiasi tipo di interazione provi ad avere con il "duro", lui non la percepisce. Mi spiego meglio: magari sarebbe anche in grado di dissipare i tuoi dubbi(essendo insicuro conosce e ha studiato a menadito la teoria), ma dovendosi far vedere preparato e più forte di te sull'argomento o dici quello che vuole lui o non si parla.
ATTENZIONE: Laddove decida di sbilanciarsi, rispondere e spiegare qualcosa è vivamente sconsigliato fargli ulteriori domande: il rischio è una risposta brusca e piccata o, peggio ancora, una punizione del tipo "non ti parlo più" o "farò di tutto per dimostrare agli altri che non sei all'altezza di essere qui".
Il "duro" per l'appunto....

E pensare che le persone "dure", quelle realmente forti, non hanno blocchi dovuti al giudizio degli altri, anzi: sono quelle più disposte al dialogo proprio perché sicure dei loro pilastri interiori fondamentali. Non sono le nozioni a renderci "duri", ma la consapevolezza dei nostri limiti e la conoscenza di noi stessi.

Oltretutto l'inesperienza è una condizione ricorrente per chi cerca nuovi orizzonti, vede cose nuove e vuole progredire

C. L'ignavo...anche detto il camaleonte. In realtà il termine preciso è più volgare e, perciò, eviterò di usarlo.
Si asserve al capo o al suo diretto superiore. Nel caso dei giocatori segue quello più acclamato dalle folle (ovvero: non sempre segue il migliore!). Alcuni si adattano in maniera camaleontica al contesto o al target, sostenendo idee funzionali all’uno o all’altro. Ingegnosità? Sopravvivenza? Sicuramente tra i 4 è la variante del presunto professionista che paga di più in termini personali. Sono quelli che fanno più strada in rapporto alle loro reali capacità. A mio modesto avviso, però, sono le persone che in assoluto contribuiscono di meno alla crescita della squadra, anzi: spesso aiutano ad indirizzare gli sforzi di tutti in un vicolo cieco o verso direzioni pericolose e controproducenti. Banalmente: sono convinto che coerenza e onestà intellettuale ripagano sempre. Utopia? Secondo me no, ma sicuramente sono qualità difficili sia da trovare che, dall'altro lato, da mettere sul piatto: richiedono sacrificio e fatica (e non a livello fisico!).

D. Il professore
Un altro «peccato» è propugnare le proprie idee e convinzioni come fossero la bibbia del settore. Mai dimenticare che esiste ed esisterà sempre qualcuno migliore di noi, da cui imparare e prendere esempio. Un professionista deve sentirsi sempre inappagato, non preparato a sufficienza, deve essere proiettato nel futuro e non deve accontentarsi mai.

Già che ci sono dò una bacchettata anche dal lato opposto dello schieramento: l’eccesso di umiltà e modestia non sempre è positivo, talvolta può rivelarsi addirittura pregiudizievole. Come detto prima, una giusta dose di sana consapevolezza di sé non guasta mai, soprattutto nello sport.

Finora ho cercato di individuare ciò che non vorrei mai essere.
A questo punto devo fare come Calvino: eliminare tutti i possibili "me stessi" non utili alla creazione del "me stesso" esatto....sarà un compito arduo, ma credo che individuare il problema e comprenderlo sia il primo (e unico) passettino necessario per partire alla ricerca della giusta soluzione!

Elimina e ragiona, ragiona ed elimina mi troverò.... ma nel frattempo bisognerà cercare di perseguire un'altra qualità per pochi, ma più facilmente individuabile: l'umiltà...aspettando che l'esperienza faccia il suo corso.



Questi sono i modi con cui possiamo mettere in pratica l’umiltà: parlare il meno possibile di noi stessi; rifiutare di immischiarci negli affari degli altri; evitare la curiosità; accettare allegramente le contraddizioni e le correzioni; passare sopra agli errori altrui; accettare insulti e offese; accettare di venir disprezzati, dimenticati e non amati; non cercare di essere particolarmente prediletti e ammirati; rispondere con gentilezza anche se provocati; non calpestare mai la dignità di nessuno; cedere alla discussione, anche se si ha ragione; scegliere sempre ciò che è più difficile.
Madre Teresa di Calcutta

martedì 5 settembre 2017

ItalVolley nel paese delle meraviglie

“Che strada devo prendere?” chiese.
La risposta fu una domanda:
“Dove vuoi andare?”
“Non lo so”, rispose Alice.
“Allora, – disse lo Stregatto – non ha importanza.”

[...]

“Siccome non era in grado di rispondere a nessuna delle domande, non dava molto peso alla maniera in cui se le poneva.”

Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie




In questi giorni ho letto e ascoltato molto a proposito degli Europei appena passati e del futuro della nostra pallavolo. Ho un paio di considerazioni da fare prima di passare ai miei soliti ragionamenti fuori tema:

1. La prima è banalissima. Siamo il solito paese di allenatori da dopo partita: tutti bravi a criticare dopo, ma come al solito la maggior parte di chi parla non solo non ha minimamente idea di cosa significa giocare a pallavolo a quel livello ma, probabilmente, nemmeno di cosa voglia dire giocare a pallavolo.
Devo dire che in questo gioco del tiro al piccione alcuni dei telecronisti italici sono degli ottimi e ingiustificati apripista nonostante qualcuno di loro un po' di esperienza ne abbia. Sarebbe bello sentire parlare di pallavolo non solo in maniera negativa, ma coinvolgente e tecnica....ma questa è un'altra storia. Apro una parentesi: la critica è sempre legittima, ma credo sia il caso di pensare bene a quel che si dice o scrive per non incappare in banalizzazioni astratte!

2. "possibile che i problemi saltino fuori solamente quando si perde sebbene siano presenti già da molto tempo?"
Questa frase contiene in sé altre 2 considerazioni:
a. vincere diventa un alibi o uno specchio in cui bearsi del risultato senza studiare e progredire o, quanto meno, cercare il progresso
b. non si può essere perfetti, ma ciò non toglie che anche con dei problemi, se ben analizzati e affrontati, si possa arrivare a degli ottimi risultati.

Detto questo non ho alcuna intenzione di fare analisi tecniche o tattiche perché non ne ho voglia ma, soprattutto, perché non ho abbastanza elementi per farlo in maniera esatta visto che non ho vissuto direttamente il gruppo dell'Italia.

Di cosa parlerò? Di alcuni pensieri che mi sono venute in mente ascoltando i commenti:
1. "c'è modo e modo di perdere"
2. "bisogna inserire più giovani se vogliamo vincere"
3. "programmazione" ...una parola che è sempre di moda, ma a cui difficilmente fa seguito qualcosa

C'è modo e modo di perdere.
Nella mia idea: se perdo ho perso. Punto. E' una semplificazione esagerata ovviamente, ma molto vicina alla realtà. Pensiamola in senso storico:
In semifinale la Serbia ha perso 3-2 con la Germania e il Belgio 3-0 con la Russia. La sconfitta della Serbia vale molto di più di quella del Belgio? Naturalmente no.
Al contrario: l'Italia ha perso 3-0 con il Belgio, ma solo 3-2 con la Germania vice-campione, il che potrebbe far pensare che l'Italia sia più forte del Belgio visto che i Red Dragons non sono arrivati in finale con i Tedeschi...alibi o facezia?? Consentitemi questi ragionamenti da bar per sottolineare che non ha senso parlare di "modi di perdere".

Per perdere a pallavolo c'è solo un modo:
giocare peggio degli avversari. 

Allo stesso modo c'è solo un modo per vincere:
GIOCARE MEGLIO DEGLI AVVERSARI, 
che non implica giocare bene o esprimere il massimo livello pallavolistico assoluto. Per vincere basta effettuare una prestazione di "due palloni" migliore dei rivali (per usare parole di Angelo Lorenzetti).

“Ma io non voglio andare fra i matti” osservò Alice.
“Be’, non hai altra scelta” disse il Gatto. “Qui siamo tutti matti. Io sono matto. Tu sei matta.”
“Come lo sai che sono matta?” disse Alice.
“Per forza,” disse il Gatto, “altrimenti non saresti venuta qui.”
Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie


Finiti gli sproloqui cerco di tornare serio almeno per un momento. Al di là delle mie chiacchiere esistono diversi modi di approcciare una partita ed, eventualmente, perderla.
La prima cosa che decreta l'importanza di una sconfitta è l'obiettivo che ci siamo posti: se l'obiettivo è molto più alto rispetto alla partita persa allora è un problema, altrimenti no. Per dirla in altri termini: se una serie C che vuol vincere un campionato perde contro una A1 o una terza divisione in amichevole è un conto, ma se perde contro una diretta rivale durante i playoff è tutta un'altra storia. Stabilire un obiettivo realistico è la base per poter analizzare una sconfitta.

Secondariamente c'è la storia del cosiddetto "atteggiamento". Io odio parlare di atteggiamento, ma se si fa parte di un gruppo Nazionale la sconfitta sportiva è la sconfitta di un paese. L'identità di un popolo è sportivamente rappresentata dai suoi gruppi sportivi e vedere perdere senza lottare DEVE dare molto fastidio a tutti noi. Sentire all'estero dire: "Ah, gli italiani, un popolo inconsistente che alla prima occasione si sbriciola" non è che mi fa incazzare(perdonate il termine), di più: noi non siamo così e chi ci rappresenta deve provarlo. Essere in Nazionale vuol dire rappresentare un popolo. A proposito di questo, mi ha dato da pensare anche la squadra di atletica leggera ai recenti mondiali: contenti per un decimo posto o per "esserci": noi siamo italiani, un po' di orgoglio. Sono ottimi risultati e ognuno ha la sua storia personale, ma dobbiamo aspirare a qualcosa di più come CONI. La nostra storia e la nostra identità ce lo impongono...ma questi discorsi oggigiorno credo siano utopici purtroppo.
Voglio crede di aver appena scritto una frase sbagliatissima.

Bisogna inserire più giovani se vogliamo vincere
Non capisco dove sia la connessione tra gli elementi di questa frase: se vogliamo vincere dobbiamo inserire dei vincenti...che poi abbiano 2 anni o 82 quale differenza fa? La domanda è: "vogliamo vincere?" Oppure, qual è l'obiettivo?

“Allora dovresti dire quello a cui credi», riprese la Lepre Marzolina.
“È quello che faccio”, rispose subito Alice. “Almeno credo a quello che dico, che poi è la stessa cosa”.
“Non è affatto la stessa cosa!” disse il Cappellaio. “Scusa, è come se tu dicessi che vedo quello che mangio è la stessa cosa di mangio quello che vedo!”
Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie

Pensando alla nostra nazionale, oltretutto, credo si possa dire tutto tranne che i convocati non siano giovani e non abbiano talento. Io personalmente credo che bisogna reinserire il concetto di "sconfitta" o "vittoria" nei vari campionati: se in A1 perdere non ha implicazioni(non si retrocede), chi non gioca per vincere perché dovrebbe dannarsi l'anima a cercare la vittoria?

Lo stesso discorso va fatto a cascata in A2, B, C, D e le divisioni.

E mi collego al discorso programmazione. Programmare non vuol dire far arrivare sistematicamente i giovani nelle serie maggiori con regolamenti specifici, ma imparare a farli crescere dal basso e selezionare solo chi lo merita. Se ripenso al mio primo anno di B1 (e io non sono assimilabile come giocatore ai talenti del club Italia, sebbene nel mio piccolo qualche soddisfazione me la sono tolta), ero l'unico 18enne in una squadra con 4/5 giocatori tra i 20 e i 25 anni e gli altri tutti over 30 (e nemmeno di poco). Vivere con gente più forte e più "anziana" è utile ed è fonte di esperienza e conoscenza. Aggiungo una seconda considerazione: se giochi male chi lo dice che devi salire di categoria? Meritatelo!

La programmazione attuale confonde il "sopravvivere" con il "vivacchiare".
Sopravvivere implica impegno, fatica e sconfitte brucianti che portano a vittorie. Vivacchiare implica giocare a pallavolo con un puro fine estetico o di intrattenimento. Quando poi chi vivacchia si trova a dover sopravvivere che succede?

Le piccole società e i settori giovanile devono creare i talenti, e tutti dovrebbero accompagnare, non coccolare, sia i piccoli clubs che i neo-giocatori...attualmente si accompagnano solo i giocatori!!! Le piccole società sportive sono le nostre radici. I settori giovanili sono la nostra linfa vitale. Le persone, di qualsiasi età e ruolo, sono il cuore. Da loro bisogna ripartire per dover sperare di affrontare tanti problemi in meno in futuro. Accompagniamole e aiutiamole. Proviamo a conoscere sistemi che funzionano un po' meglio del nostro...basket? Calcio? Tennis? Agli esperti la risposta, io non ne ho le capacità sebbene senta la necessità di fare qualcosa di più.

Detto ciò l'Italia del Volley ha giocatori forti, tecnici preparati e un gran cuore, ed oltretutto ospiteremo il prossimo mondiale. Secondo me potremo fare bene nonostante i problemi e son sicuro che ci riusciremo, ma la vittoria non dovrà essere l'ennesimo alibi.

La pallavolo in Italia può tornare a crescere. Serve tempo, volontà di riportare lo sport e le persone al centro del progetto e chiarezza di intenti: il momento, anche mediaticamente,  è quello giusto... però ragazzi sbrighiamoci a cercare il cambiamento dell'anima del nostro favoloso sport che al mondiale manca poco e a Tokyo ancora meno!

Bianconiglio – "Povero me! Povero me! Arriverò in ritardo!"
Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie